
Perché per Trump i dazi non sono per nulla “immotivati”

Per il presidente Sergio Mattarella protezionismi e dazi in arrivo dall’America sono “immotivati”, invece per i consiglieri economici dell’amministrazione Trump e per gli analisti finanziari allineati sulle loro posizioni sono motivati eccome.
Ha spiegato recentemente Jason Cummings, responsabile per gli Stati Uniti del gruppo di gestione di fondi di investimento Brevan Howard Asset Management, che non è tanto il disallineamento dei reciproci dazi che penalizza la bilancia degli scambi degli Usa, ma le barriere non tariffarie europee. Queste consisterebbero principalmente nel fatto che le merci europee destinate al mercato statunitense (o anche ad altri mercati internazionali) non sono gravate da quella che in Italia si chiama Iva e nei paesi anglosassoni Vat, e questa dà loro un vantaggio sulle industrie americane che vogliono esportare nel mercato europeo: nei loro bilanci non godono di quello che a tutti gli effetti funziona come un sussidio alle esportazioni, e devono pagare l’Iva sul loro prodotto quando cercano di venderlo in Europa.
«Mettiamola così. La casa automobilistica tedesca Bmw può vendere nel mercato europeo ad alta tassazione o esportare nel mercato statunitense a bassa tassazione, sfruttando il rimborso Iva. Al contrario, la casa automobilistica statunitense General Motors deve competere con Bmw in Europa senza un sussidio all’esportazione. Poiché la Bmw riceve un rimborso Iva quando esporta al di fuori dell’Europa, è di fatto protetta dall’onere fiscale sostenuto a livello nazionale, un sussidio implicito di cui la Gm non beneficia quando esporta le Cadillac in Europa. Prendiamo ad esempio un bene da 100 dollari. I produttori europei possono venderlo a livello nazionale a circa 120 dollari dopo l’Iva, ma esportarlo esente da imposte a 100 dollari. Gli esportatori statunitensi nei mercati europei devono competere con le aziende nazionali, pagando l’Iva localmente e sostenendo anche le imposte interne statunitensi incorporate. Questo potrebbe essere uno dei motivi per cui vengono vendute molte più Bmw negli Stati Uniti che Cadillac in Europa».
Un dazio del 25 per cento
Gli Stati Uniti hanno tentato in vari modi di favorire le proprie esportazioni, ma questi sono sempre caduti sotto la mannaia del Wto, che li ha condannati come sussidi alle esportazioni, mentre l’europea esenzione dall’Iva non è considerata tale. Perché allora gli Usa non imitano il sistema europeo, cioè far pagare l’Iva sulle vendite all’interno ed esentare le vendite all’estero? Secondo Cummings «è improbabile che gli americani siano favorevoli ad aggiungere un’altra tassa alle già esistenti tasse di livello locale e statale». Da cui l’unica possibile alternativa: imporre dazi sulle importazioni dall’Europa.
Secondo Cummins per neutralizzare lo svantaggio competitivo nei confronti degli europei servirebbe un dazio del 25 per cento.
«Ciò creerebbe un cuscinetto di prezzo che compenserebbe gli esportatori americani per le imposte interne che essi sostengono. Questa tariffa più elevata non penalizza ingiustamente l’Europa, ma neutralizza semplicemente le sovvenzioni implicite nelle esportazioni europee».

Far “pagare” i titoli di debito
Ancora più ambiziose e allarmanti per l’Europa le politiche auspicate da Stephen Miran, analista strategico di un altro gestore di fondi di investimento, Hudson Bay Capital, divenuto uno dei principali consiglieri economico-finanziari dell’amministrazione Trump. Nella sua visione, i dazi sono solo uno strumento per arrivare a nuovi equilibri nel sistema mondiale del commercio che abbisogna di un dollaro più debole, ma soprattutto questi nuovi equilibri, che riguardano anche i titoli del debito americano detenuti da soggetti stranieri, dovrebbero essere “pagati” dai partner commerciali degli Usa.
Sulle scrivanie di tutti i ministri con portafoglio economico dei paesi europei oggi si trova una copia di un articolo scritto da Miran nel novembre scorso che Le Figaro commenta così:
«L’articolo di Miran ruota attorno a un’equazione complessa: come finanziare i deficit americani, mantenere bassi i rendimenti del debito pubblico nazionale e svalutare il dollaro? La risposta dell’economista è semplice: dobbiamo farla pagare ai paesi alleati. Tecnicamente, vuole costringerli a scambiare i loro attuali buoni del Tesoro [cioè il debito americano che hanno acquistato, ndt] con titoli perpetui o quasi perpetui a bassissima remunerazione. In altre parole, condividere il “peso” del dollaro con il resto del mondo, spostando nel contempo la crescita economica dagli altri continenti agli Stati Uniti. Per motivare gli stati riluttanti ad accettare una transazione così svantaggiosa, l’analista strategico raccomanda di usare nelle trattative l’ombrello militare americano e la riduzione dei dazi doganali precedentemente introdotti».
Dollaro e titoli del Tesoro Usa
Miran non è preoccupato degli effetti inflazionistici di nuovi dazi o del loro effetto depressivo sulla crescita economica globale:
«I dazi generano entrate e, se compensati da aggiustamenti valutari, presentano effetti collaterali inflazionistici o negativi di altra natura minimi, se guardiamo al precedente storico del 2018-2019. Mentre la compensazione valutaria può inibire gli aggiustamenti ai flussi commerciali, essa suggerisce che i dazi sono in ultima analisi finanziati dalla nazione tariffata, il cui potere d’acquisto e la cui ricchezza reali diminuiscono, e che le entrate raccolte migliorano la condivisione degli oneri per la fornitura di asset di riserva [cioè i titoli del debito americano detenuti da altri paesi, ndt]».
E spiega che le politiche che Trump sta cercando di realizzare non sono certo immotivate, come si dice in Europa, ma derivano dallo status del dollaro come moneta di riserva internazionale e dai titoli del Tesoro americano diventati “asset di riserva” globali, in passato situazione vantaggiosa per gli Usa, ma oggi non più:
«Il dollaro è costantemente sopravvalutato, in gran parte perché gli asset in dollari funzionano come valuta di riserva mondiale. Questa sopravvalutazione ha pesato molto sul settore manifatturiero americano, mentre ha beneficiato i settori finanziari dell’economia in modi che avvantaggiano i ricchi americani. E tuttavia, il presidente Trump ha elogiato lo status di riserva del dollaro e ha minacciato di punire i paesi che smettono di usare il dollaro a fini di riserva. Mi aspetto che queste tensioni saranno risolte da una serie di politiche progettate per aumentare la condivisione degli oneri tra partner commerciali e militari: piuttosto che tentare di porre fine all’uso del dollaro come valuta di riserva globale, l’amministrazione Trump può tentare di trovare modi per riprendersi alcuni dei benefici che altre nazioni ricevono dalla nostra riserva. La riallocazione della domanda aggregata da altri paesi all’America, un aumento delle entrate per il Tesoro degli Stati Uniti, o una combinazione di questi, possono aiutare l’America a sostenere il costo crescente di fornire asset di riserva per un’economia globale in crescita. È probabile che l’amministrazione Trump intrecci sempre di più la politica commerciale con la politica di sicurezza, considerando la fornitura di asset di riserva e di un ombrello di sicurezza come collegati».
Miran è d’altra parte consapevole che l’operazione potrebbe fallire: «Esiste un percorso attraverso il quale queste politiche possono essere implementate senza conseguenze materiali negative, ma è stretto e richiederà una compensazione valutaria per i dazi e un gradualismo o un coordinamento con gli alleati o la Federal Reserve sul dollaro». Auspici che sfiorano l’utopia.
L’enorme bolla si sta sgonfiando
Sul Financial Times Ruchir Sharma, il premiatissimo autore di What Went Wrong with Capitalism, taglia la testa al toro sostenendo che il ribilanciamento dei mercati globali, cioè il ridimensionamento della Borsa e degli asset di riserva americani detenuti dal mondo intero, è già in corso. La bolla americana è ancora enorme ma sta sgonfiandosi, e questo non dipende anzitutto dalle politiche erratiche di Trump.
«L’enfasi attorno all’eccezionalismo americano si è costruita sulla base della crescita economica superiore degli Stati Uniti, che è stata artificialmente alimentata da una massiccia spesa pubblica e da un boom senza precedenti nella spesa in conto capitale per l’intelligenza artificiale. L’economia statunitense non era mai stata così dipendente dal governo prima, e gestire deficit di bilancio del 6 per cento annuo non era sostenibile. Nel frattempo, le recenti riforme fiscali in Germania e il lancio di modelli di intelligenza artificiale a basso costo in Cina stanno dimostrando che il resto del mondo può competere con gli Stati Uniti».
Forze più grandi di Trump
Enormità della bolla: anche dopo i recenti scossoni l’S&P 500 (l’indice dei 500 titoli americani a maggiore capitalizzazione) è superiore del 25 per cento alla sua tendenza storica su 150 anni e i suoi titoli mediamente rendono un 50 per cento di profitto in più rispetto alla media dei mercati azionari internazionali; negli ultimi anni l’80 per cento di tutto il denaro investito nel mondo in fondi azionari è andato negli Stati Uniti, al punto che oggi gli stranieri detengono il 30 per cento dei titoli di borsa americani, cifra triplicata in un decennio e salita a 20 mila miliardi di dollari.
Questo non può durare, e infatti secondo Sharma l’aggiustamento sembra essere iniziato:
«I mercati azionari europei hanno appena avuto il loro mese migliore per afflussi esteri in un decennio. Anche il Giappone sta attraendo afflussi. Nemmeno i mercati emergenti stanno più flettendo insieme al mercato statunitense. E mentre gli interrogativi sul predominio economico e di mercato degli Stati Uniti si diffondono alla vasta massa di investitori in tutto il mondo, l’entusiasmo per l’eccezionalismo americano continuerà a svanire. Potrebbe essere difficile da credere, ma molte delle forze in gioco sono persino più grandi di Trump».
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