“Adolescence” ci sbatte in faccia quello che non vediamo dei nostri ragazzi

Di Carlo Simone
27 Marzo 2025
L’incomunicabilità tra adulti e giovanissimi, le responsabilità di genitori e insegnanti, il mistero del male. La serie tv di cui “parlano tutti” dice verità scomode che non è banale sentire. Guardatela
adolescence Netflix

Stavo per disdire Netflix, poi è uscito Adolescence. È la miniserie di cui tutti parlano. Appena 4 episodi, ciascuno girato in un unico piano sequenza, con un cast di grande talento. La vicenda inizia con la polizia che irrompe in casa di una famiglia della piccola borghesia inglese e arresta senza tanti fronzoli Jamie Miller, il figlio tredicenne (impersonato da Owen Cooper, alla prima prova attoriale davanti a una telecamera, di strabiliante bravura).

Sembra un’incredibile svista: il ragazzino si piscia addosso e si dichiara innocente; il padre tutto muscoli lo difende a spada tratta; fatichiamo a parteggiare per i poliziotti; immaginiamo (anzi, speriamo!) che nel prosieguo delle puntate si scoprirà il vero colpevole. Un tubo. Il giallo è risolto in partenza: un video inchioda Jamie. Restiamo perplessi: a che servono gli altri tre episodi? A cercare di trovare risposta alla domanda che il padre, in lacrime, rivolge al figlio, abbracciandolo dopo un iniziale scatto di orrore: «Perché? Perché?».

Le verità scomode di “Adolescence”

Ma come si può dire perché un tredicenne squarti a coltellate una compagnetta di scuola? Temevo tantissimo, dopo un inizio così dirompente, che tutto venisse etichettato sotto qualche targa à-la-Netflìx: che so, uomini, etero & caucasici cattivi – donne, gay & afro buoni, o meraviglie manichee consimili, a cui siamo ormai noiosamente abituati. Invece no. Certo, si parlerà di mascolinità tossica, di manosfera, di incel. Ma il motivo per cui Adolescence è sulla bocca di tutti credo non sia riducibile a queste pur drammatiche ed influenti marcescenze della nostra quotidianità.

Adolescence, infatti, che fa di una certa rudezza (a partire dai martellanti piani sequenza) la propria cifra stilistica, ci sbatte in faccia senza mezzi termini verità scomode che non è banale sentire.

“Adolescence” e l’incomunicabilità tra adulti e ragazzini

Innanzitutto, che adulti e giovanissimi non condividono più il medesimo linguaggio. Emblematico, sotto questo punto di vista, il secondo episodio, quello più poliziesco (nel senso che ha al centro due detective e un’indagine: la ricerca dell’arma del delitto). Il pur bravo e onesto investigatore Luke Bascombe non riesce a cavare un ragno dal buco, poiché – come gli rivelerà il figlio Adam, che frequenta la stessa scuola di Jamie, e conosce e condivide, pur essendo uno sfigato, il linguaggio dei suoi coetanei – non è stato in grado di interpretare correttamente le emoji che la vittima (Katie) aveva lasciato su Instagram a Jamie.

A sua volta, Adam ignora che quelle emoji richiamino l’immaginario del film Matrix, pellicola che non appartiene alla sua generazione, in un perfetto cortocircuito semantico. Eppure, dietro quelle emoji, utilizzate in quel modo, si cela un bullismo infido, di cui Jamie è stato vittima (e da cui la reazione violenta, spropositata, delle coltellate): accuse a sfondo sessuale, come se i tredicenni potessero avere contezza di cosa sia davvero il sesso, che “conoscono” depauperato da ogni significato e ridotto alla pornografia e alla pseudo-mitologia di cui sono zeppi i loro smartphone. Dunque: adulti che non sanno interpretare la lingua dei ragazzi; ragazzi che adoperano termini (e simboli) privi di alcun significato. Incomunicabilità, da cui l’ignoranza.

“Adolescence” non divide le squadre in buoni e cattivi

Legato a questo, Adolescence funziona poiché non divide le squadre in buoni e cattivi. E in un mondo post-protestante come il nostro, che gode nel sapere quante lacrime ha versato Filippo Turetta, l’ho apprezzato moltissimo. Jamie ha compiuto un’azione mostruosa, ma è a sua volta vittima: non solo del bullismo di Katie, ma di un contesto che, a parte una carezza (in casa), un tentativo di disciplina (in classe) e uno smartphone, non ha saputo offrirgli granché. Al termine del terzo episodio (il più bello: un’azzardata, ma riuscita, lunga sequenza di dialogo tra Jamie e la psicologa), il ragazzino esplode con un: «Non ti piaccio nemmeno un po’? Che ne pensi di me, allora?», in cui, oltre a una punta di narcisismo (chi non ce l’ha?), ho colto anche un disperato bisogno di essere voluto bene (chi non ce l’ha?).

È il mistero del male, che insidia noi creature che per il male non siamo fatte; ciò è ben esemplificato dalla cameretta di Jamie, su cui si chiude il quarto episodio: ammiriamo un tenero peluche (a tredici anni ancora ci stanno i peluche sopra i letti dei ragazzini!), innocente, sotto la carta da parati che rappresenta un cielo stellato, inquietantemente strappata nel mezzo. Un dettaglio forse non casuale: c’è uno strappo nella storia del mondo, un male che serpeggia, che nessuna politica e nessuna teoria pedagogica basteranno a emendare. Occorrerebbe altro, che l’uomo non può darsi. Sono contento che gli autori di Adolescence non abbiano avuto la superbia di offrirci una ricetta per cui i tredicenni non prenderanno più a pugnalate le compagne. Si sono limitati a metterci davanti l’uomo: e non è poco.

Anche mio figlio potrebbe farlo? Sì

Venendo a concludere, l’ultimo aspetto degno di nota, che è poi quello per cui tutti i genitori del mondo stanno parlando di Adolescence, è che la miniserie ci palesa un dato di fatto: i genitori ignorano cosa i figli pensino e facciano. È sempre stato così; solo che, da quando c’è lo smartphone, i figli spesso sono educati altrove, in community virtuali che li coinvolgono ben più della scuola, che sembra aver sempre meno presa, e delle famiglie, che spesso non hanno grandi proposte di senso da condividere coi più giovani.

L’incontro col lupo cattivo non avviene più a chi si perde nella selva oscura lontano dal villaggio: la foresta s’è mangiata tutto, anzi, ce la portiamo pure in tasca. «Anche mio figlio potrebbe fare quello che ha fatto Jamie?», è l’inevitabile domanda che ci viene vedendo Adolescence. Risposta: sì, certo. Mica ogni assassino sembrava, ogni volta, “una bravissima persona”?

Nessuna ricetta, ma una possibilità

E allora? Allora una soluzione facile non c’è. C’è però almeno una possibilità: guardare l’umano, per quel mistero (quel guazzabuglio, diceva Manzoni) che è il suo cuore insidiato dalle ombre. «Sai, ho ancora davanti agli occhi quel bambino imbranato», dice il padre di Jamie alla moglie, seduti sul letto, nell’ultimo (struggente) episodio. È quel che provo a dire a me stesso quando un alunno diventa insopportabile, o mia figlia mi fa perdere la pazienza: c’è un bambino, lì sotto, e quel bambino è sempre un bene, occorre lottare per esso. E subito dopo, quando il padre, stupito per quanto sia in gamba la figlia maggiore, chiede alla moglie: «Come abbiamo fatto una figlia così?», la consorte gli dà una risposta che vale la visione di Adolescence: «Così come abbiamo fatto Jamie».

È solo a quel punto che il padre trova il coraggio di riaprire la porta della cameretta di Jamie, rimasta chiusa dal giorno in cui la polizia lo ha trascinato via. La serie si chiude su parole che certo non bastano, ma che sono un buon inizio e che tutti i genitori farebbero meglio a ripetersi la sera prima di andare a letto (anche coloro che, come il padre di Adolescence, sono convinti di aver fatto di tutto per preservare i figli dal Male): «Mi dispiace ragazzo, avrei dovuto fare di meglio». Stavo per disdire Netflix. Tocca aspettare ancora un attimo.

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