Cento anni di Flannery O’Connor, la scrittrice che faceva a cazzotti con l’angelo

Di Redazione
25 Marzo 2025
Una rassegna del Centro Culturale di Milano per il centenario della grande autrice americana e un Luigi Amicone da rileggere sulla prima biografia italiana dedicata a una donna che sin dall’infanzia voleva «vivere, non funzionare»
Immagine di Flannery O'Connor tratta dal film
Un'immagine di Flannery O'Connor tratta dal film Flannery (foto Library of Congress)

Per celebrare il centenario della nascita di Flannery O’Connor, il Centro Culturale di Milano organizza, insieme ad alcuni dei più autorevoli istituti e Università americani e italiani che studiano l’opera della grande scrittrice americana, una rassegna intitolata “Flannery O’Connor 100. Il cielo e la polvere”. Due convegni e un ciclo di film ideati dal CMC con Mediateca Milano per scoprire l’avvincente forza e attrattività drammatica della scrittrice di Savannah, un’occasione straordinaria per il pubblico per scoprire o rileggere le sue opere. Una rassegna/workshop sulle molteplici novità che la breve e intensa vita e opera della ragazza di Savannah ha aperto nel cuore della narrativa e dell’arte, con il suo pensiero teologico ed esistenziale, sul mestiere dello scrittore e la vocazione artistica.

flannery o'connor

Tra i tanti ospiti, oltre gli scrittori Luca Doninelli e Andrea Fazioli, l’editore Mario Andreose, la filosofa Elisa Buzzi, gli insegnanti e rettori di Licei Classici Francesco Valenti e Daniele Gomarasca, le traduttrici Marisa Caramella e Gaja Cenciarelli, docenti ed esperti americani, come Bruce Gentry dell’Institute Flannery O’Connor, Georgia College & State University, e editor della Flannery O’ Connor Review; Angela O’Donnell della Fordham University di New York; Fernanda Rossini, biografa e studiosa di O’Connor (Ares).

Tante le testimonianze e gli interventi sulle ultime novità: Mark Bosco S.J. Georgetown University da Washington D.C, co-autore insieme a Elizabeth Coffman del docufilm Flannery (136 min) vincitore del primo Premio per il Cinema della Library of Congress, la scrittrice Romana Petri col suo nuovo libro in uscita per Mondadori “La ragazza di Savannah” (Mondadori), Benedetta Centovalli docente e critico letterario che racconterà il suo recente viaggio in Georgia tra luoghi e persone. Trovate tutte le info sulla rassegna sul sito del Centro Culturale di Milano. Su Tempi di aprile, infine, i nostri lettori troveranno un articolo di Francesco Valenti su Flannery O’Connor.

Di seguito ripubblichiamo un articolo su Flannery O’Connor del 17 marzo 2021 di Luigi Amicone.

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Savannah, Georgia, Stati Uniti d’America, anno 1931, scuola primaria cattolica. Come ogni lunedì gli alunni che non hanno partecipato alla Messa domenicale dei bambini devono giustificare la propria assenza in classe davanti alla maestra. Quella mattina tocca a lei. E l’amichetta che è al suo fianco si ricorderà bene la scena. «Si è posta lì, davanti alla suora e le ha detto: “La Chiesa cattolica non impone alla mia famiglia a che ora devo andare a Messa”. Io avevo cinque anni e lei sei, e ho capito che lei era diversa». Sei anni. E sì, era diversa. Quanto può essere diversa una bambina che a furia di esercitarsi a fissare fermamente negli occhi una gallina, riesce a farle imparare a camminare all’indietro. 

Abbiamo finalmente la prima biografia italiana di Mary Flannery O’Connor (Savannah, 25 marzo 1925 – Milledgeville, 3 agosto 1964). Autrice: Fernanda Rossini (1965), insegnante, saggista, traduttrice che, a quanto pare, non paga di questo suo lavoro magistrale e monumentale, sta conducendo un’ulteriore ricerca dottorale sulla scrittrice americana presso l’Università Ludwig Maximilian di Monaco di Baviera. 

Essere certi di non aver altro da fare nella vita che scrivere. Scrivere a vent’anni. Scrivere per vent’anni. E morire alla soglia dei 40 della stessa malattia di cui è morto papà a 45: Lupus eritematosus. Una “bestiolina” pre-Covid da scatenare la fantasia di una ragazza che, «fra gli otto e i dodici anni», aveva l’abitudine di rinchiudersi in una stanza «e con la faccia feroce (e cattiva)» scazzottare con il suo angelo custode. Eppure, confesserà, «se c’è una cosa tremenda a scrivere quando si è cristiani è che per te la realtà suprema è l’Incarnazione, la realtà presente è l’Incarnazione e all’Incarnazione non ci crede nessuno». 

L’amato padre Edward muore il primo febbraio 1941. Due anni dopo, la figlia diciottenne annota parole dalle quali si può già arguire perché il convertito, trappista e scrittore Thomas Merton, pur non avendola mai conosciuta personalmente, dirà di lei: «Quando leggo Flannery O’Connor, non penso a Hemingway, o a Katherine Anne Porter e nemmeno a Sartre, ma piuttosto a qualcuno come Sofocle». Ed ecco le righe per il padre. «La realtà della morte ci ha investiti e la consapevolezza del potere di Dio ha infranto la nostra compiacenza e indolenza come un proiettile nel fianco. Il significato di dramma, di tragedia, di infinito è disceso su di noi, riempiendoci di dolore, ma oltre al dolore anche di meraviglia e stupore. I nostri progetti erano così meravigliosamente predisposti, pronti per essere realizzati, ma con magnificente certezza Dio li ha messi da parte e ha chiesto: “Vi siete dimenticati i miei?”». 

Diciotto anni! Di lì in avanti, vuole scrivere storie che siano «strane come la morte e che brucino di dolore e speranza». Nel suo diario segreto, entrando in università, proclama: «Oh, caro Dio, per favore fa’ che io non venga coinvolta dall’immensa nonchalance con la quale il mondo socialmente scientifico guarda all’eternità». «Voglio vivere – non funzionare». 

Come un Diogene dalla lanterna non scettica, per tutta la vita la O’Connor andrà alla ricerca di personalità con il gusto razionale (o almeno la curiosità) della fede in Cristo. E in un mondo della vita che il consolatorio spiritualismo religioso aveva abbassato e rattrappito fino al punto di spalancare le porte al nichilismo delle «idee assassine», due grandi guerre e due grandi totalitarismi, Flannery avrebbe compreso bene don Luigi Giussani quando diceva ai suoi ragazzi: «Vedo le stesse cose che vedete voi, ma io vedo di più di voi». Flannery vedeva come noi, ma vedeva più di noi. Esemplare a questo riguardo l’introduzione alla vita di Mary Ann, la bimba che entrò a tre anni nella “Casa per il malato di cancro” della Congregazione di nostra Signora del soccorso perpetuo. Il cancro le deturpava il volto e doveva morire a breve. Invece visse fino a 12 anni. Letteralmente «illuminando» – testimoniano le suore che l’hanno accudita – un luogo di agonia e di morte. «Non chiedetevi perché Mary Ann è morta. Chiedetevi perché è vissuta». Flannery ribalta e infiocina così lo scandalo sulla sofferenza e morte dei bambini innocenti.

Di questa donna dalla vita immersa nella fattoria di oche, papere, galline e una quantità di pavoni «da inciamparci uscendo di casa» per rendere onore alla bellezza di un essere che nel Medioevo simboleggiava la Chiesa cattolica, circolano da sempre aneddoti e leggende. Ma dei suoi amori umani. Dei suoi corsi di scrittura creativa a Iowa City, ancora oggi uno dei centri più prestigiosi del mondo. Dei suoi confidenti, insegnanti, mentori, editori. Della Messa ogni mattina e dei venti minuti ogni sera dedicati alla lettura della Summa di san Tommaso. Dei cinque anni fuori di casa, tra lo Iowa, New York, il Connecticut, ospite di amici, scrittori, alta società, sempre al lavoro in una stanzetta (stanzetta che talvolta «puzza come una Bibbia mai aperta»), quasi mai per diporto, cinema o teatri, con quella passione e definitività di scrittrice che piega la schiena alla quotidiana disciplina del lavoro – e scrive, corregge, cestina – e di nuovo daccapo e non si piega a nessuna scorciatoia. Dei suoi mesi a Yaddo, alle porte di New York, ospite di una comunità filantropica e artisti di alto rango, dove «ci si aspetta che tutti dormano in giro. Questo non è peccato, è Esperienza, e se non dormi con qualcuno del sesso opposto, si deduce che tu dorma con qualcuno del tuo stesso sesso. […] Prima a colazione discutevano di Seconal e barbiturici, adesso forse di marjuana». Di lei che è diversa sul serio («sopravvivi in questa atmosfera badando agli affari tuoi e avendo un sacco di affari tuoi a cui badare; e non avendo timore di essere diversa dal resto di loro»). Di lei che ha toccato con mano che il fatto religioso è diventato più una questione di «gusto» che di «fede», mentre per lei è l’unica questione seria. Ecco, di tutto ciò la biografia rossiniana è ricolma.

Quei cristiani alla Joe Biden

Perché avere sul comodino questa biografia? Perché anche se non hai ancora letto niente di lei, capisci la reazione del compagno di università leggendo i suoi primi abbozzi. «Meraviglioso: divertente, selvaggio, agghiacciante, completamente originale». Tutt’altro che una devota autrice consolatoria, Flannery O’Connor è piuttosto un pugile. Categoria pesi massimi. Alla sua amica Maryat che è un prototipo di progressista cattolica che ha in Joe Biden l’odierno campione, fa capire qual è la sua posizione in tema di “lotta per i diritti civili”. Lei viene dalla “Cintura della Bibbia” tradizionalmente segregazionista. È una conservatrice come lo è la gente del Sud. Ma è da quando è stata battezzata che sa che un uomo è un uomo non perché ha un certo colore della pelle. Finita lì. Le menate semplicemente non l’appassionano. Approva il concreto operare del pastore Martin Luther King. Ma non ci vede «il grande santo dei nostri tempi». Per non parlare del «tipo profetizzante, filosofeggiante, pontificante», alla James Baldwin. «Baldwin potrà anche dirci che cosa si prova a essere un nero di Harlem, ma il problema è che cerca anche di dirci la sua su tutto il resto. Preferisco Cassius Clay». 

Nel racconto Il negro artificiale scolpisce uno dei più belli e convincenti testi contro il razzismo. Eppure il racconto trova difficoltà presso l’editore (che pure è un suo amico ed estimatore) per quel “nigger”. Aggettivo che, tanto più se sostantivato, negli Stati Uniti non poteva e non può essere pronunciato (però “cretini” si può e si deve pronunciare per i capi dell’università gesuita di Baltimora, che in seguito al Black Lives Matter, nell’estate del 2020, non appena qualche bulletto si è affacciato a tirarla in ballo, subito hanno rimosso dalla hall dell’università il nome celebrato della grande scrittrice). 

«Scrivo così perché sono cattolica»

Il padre Edward era colui che la incoraggiava a scrivere. La madre Regina Cline è colei che «presiede la fortezza» della fattoria “Andalusia”. Soprattutto dopo essere rimasta vedova e nei quindici anni di malattia della figlia, durante i quali la proteggerà accanitamente per garantirle privacy e tranquillità nel suo lavoro, Regina è un generale alle prese con una grande truppa e grandi esercitazioni militari. Figlia, zie, nipoti, visitatori, curiosi, giornalisti, braccianti. E intanto: mucche da mungere e acquisti al mercato del bestiame contrattando i prezzi – e facendosi valere – con i duri allevatori del Sud. A madre Regina tocca curare la proprietà, mettere una buona distanza tra sé e i villani, tenere a bada i pavoni, le papere, le oche e le galline di Flannery, evitare che gli operai si ubriachino troppo e che i neri o bianchi ubriachi si sparino tra marito e moglie… Insomma, una madre tosta e presente. A lei Flannery fa leggere in anteprima le cose che scrive. E puntualmente Regina si addormenta. O, in un soprassalto di coscienza, sbotta: «Scusa, ma ogni tanto non potresti scrivere di persone perbene?». 

Esilaranti le scene all’uscita di La saggezza nel sangue, il primo romanzo della O’Connor. Un conoscente riporta che in città «tutti lo odiavano, ne erano terrificati». La zia Mary Cline rimane chiusa in casa per una settimana e alla vicina di casa spiega: «Non so dove Flannery ha conosciuto le persone di cui scrive, senz’altro non in casa mia». L’insegnante di scrittura al college confessa di aver scagliato la copia del romanzo lontano da sé, dichiarando la propria indignazione: lei non aveva insegnato a Flannery a scrivere così e «il personaggio che moriva nell’ultimo capitolo avrebbe fatto un grande favore al mondo se fosse morto nel primo». 

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Due romanzi, qualche decina di racconti, saggi d’occasione, articoli di critica letteraria, migliaia di lettere. «Scrivo come scrivo perché sono (non benché sia) cattolica». Tutto sommato una produzione piuttosto smilza. Però ha avuto l’onore con William Faulkner di essere pubblicata dalla Biblioteca del Congresso e ascendere all’olimpo delle più grandi scrittrici americane (se non la più grande) di sempre. 

Vedrete che aveva ragione Lowel

Finalmente siamo alla presenza di 360 pagine di una biografia definitiva per prendere (o riprendere) in mano un’opera immortale. Alla fine, vedrete, il giorno del Giudizio si scoprirà che aveva ragione quel pazzo allucinato, alcolizzato, psicotico-depressivo che fu il poeta Robert Lowel. Il primo amico, il primo amato, il primo mentore di Flannery. Incontrato a Yaddo, nella comune degli scrittori democratici, filantropi, artisti dell’ammucchiata. Quel Lowel che a un certo punto mise in giro a New York la voce di questa O’Connor nientemeno come di una Teresa di Lisieux. Naturalmente lei si infurierà e lo fulminerà con i suoi occhi blu profondi. Mentre lui, il poeta, indietreggerà fino a sparire dalla sua vista. Un po’ come la gallina che aveva imparato a camminare all’indietro sotto lo sguardo fermo di quella bambina di Savannah. Georgia, Stati Uniti d’America.

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