Colloqui fiorentini. «Così 2.300 ragazzi sono rimasti inchiodati davanti a Pasolini»

Di Giuseppe Beltrame
22 Marzo 2025
Il segreto del convegno che ogni anno riesce a far “parlare” la grande poesia e letteratura italiana a migliaia di studenti e professori. Intervista al direttore Pietro Baroni
Colloqui fiorentini
Un momento dell’edizione 2025 dei Colloqui fiorentini, dedicata a Pasolini (foto Diesse Firenze)

«La poesia nasce da un’esigenza, non si può insegnare». È questa la convinzione di Pietro Baroni, direttore dei Colloqui fiorentini, il convegno organizzato da Diesse Firenze che dal 2002 riunisce ogni anno nel capoluogo toscano migliaia di studenti delle scuole superiori per approfondire l’opera di un protagonista della storia della letteratura italiana. «L’intento è arrivare al cuore dell’autore, perché diventi per i ragazzi un vero e proprio “colloquio” con la sua produzione». Quest’anno sono stati oltre 2.300 gli studenti che dal 27 febbraio al 1° marzo hanno affrontato l’opera di Pier Paolo Pasolini grazie al contributo di esperti e docenti. I giovani sono partiti dal titolo dell’evento, “Io sono pieno di una domanda a cui non so rispondere”, tratto dal romanzo Teorema.

Perché proprio Pasolini?

Era da qualche anno che ci giravamo intorno, è un autore a cui molto spesso non si arriva nei programmi scolastici, anche per i suoi aspetti duri e scabrosi non facili da trattare. Ma è stata una scommessa vinta, tantissimi studenti e anche molti docenti, inizialmente sconcertati di fronte alla sua figura, avvicinandosi al cuore di quest’uomo, al suo “grido”, sono rimasti inchiodati. Pasolini ti obbliga ad ascoltare questo urlo, perché lui stesso ha la lucidità di rimanerci di fronte, andando oltre le lotte al consumismo e all’edonismo che ne hanno segnato la vita. Anche se lui stesso ne rimaneva sconvolto: «È impossibile dire che razza di grido sia il mio», scriveva sempre in Teorema.

Colloqui fiorentini
Palazzo Wanny a Firenze gremito di studenti e professori durante la tre giorni dedicata a Pasolini (foto Diesse Firenze)

I numeri dell’evento confermano il successo.

Sì certo, ma quelli rimangono sulla carta, ciò che resta sono le esperienze dei ragazzi. Una mia studentessa dopo il convegno, con le labbra che tremavano per l’emozione, mi ha detto: «Dovete continuare a portare avanti questa iniziativa, perché lei non ha idea di cosa accade qui per chi partecipa. Succede qualcosa dentro, questa esperienza ti cambia». Poi in una lettera che mi ha scritto ha aggiunto: «I Colloqui mi hanno realmente salvata nel senso più fisico del termine».

Lei come li racconterebbe i suoi Colloqui fiorentini?

Con tre parole che traggo dalle reazioni degli studenti: imprevisto, libertà e salvezza. Imprevisto perché in molti escono dal palazzetto con una consapevolezza diversa. «Non avrei mai pensato che un convegno di letteratura potesse portare a questo», sono le parole più frequenti. Libertà perché più di uno mi ha detto: «Non sono mai stato così libero come qui». Salvezza per la testimonianza di una ragazza, che mi scriveva: «Da questa esperienza comprendo che c’è una conoscenza di sé che va oltre, che la letteratura ha come potenziale, ma solo se fatta in un certo modo».

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L’esultanza dei giovani vincitori di uno dei contest dei Colloqui fiorentini in cui vengono valutati gli elaborati preparati dagli studenti nei mesi che precedono il convegno (foto Diesse Firenze)

In un mondo in cui la poesia, come linguaggio ma anche quanto ad autorevolezza, sembra vivere un periodo di crisi, anche nelle modalità di insegnamento, i Colloqui fiorentini si pongono in controtendenza. Qui questa forma letteraria trova nuova vita e diventa generativa.

La crisi della poesia è dovuta a un disorientamento generale dell’arte, a cui non si sottraggono anche le forme artistiche più “popolari” come il cinema e la musica. Non se ne capisce più il senso. Oggi la poesia in molti casi diventa qualcosa “da fare”, non è più qualcosa che nasce da sé, lo testimoniano le miriadi di “laboratori di poesia” che nascono ovunque e che trovo inutili. Dopo i Colloqui molti ragazzi spontaneamente cominciano a scrivere versi, come a testimoniare che questa forma letteraria non si può insegnare in maniera didascalica, ma nasce da uno sguardo sull’uomo. È un’esigenza che emerge quando si impone la sua vera natura.

L’arte di oggi invece cosa esprime?

In molti casi è solo lo sfogo delle emozioni o delle pulsioni che uno si porta dentro, di un dramma trasmesso attraverso questo mezzo espressivo. Così le opere possono comunicare solamente altre pulsioni. Se chiedo ai miei studenti: «Secondo voi come è stata concepita quest’opera?», normalmente mi rispondono: «L’autore ha sentito qualcosa e l’ha buttato giù». Qualsiasi forma artistica in questo modo si chiude in un’autoreferenzialità che ha smarrito la volontà di farsi capire. Oggi il pensiero comune è: «Non mi importa essere compreso, vale solo quello che sento». Non c’è niente che accomuna all’altro.

Colloqui fiorentini
La premiazione degli elaborati durante i Colloqui fiorentini 2025 (foto Diesse Firenze)

Si perde quindi il contatto con lo spettatore.

Assolutamente. A questo proposito qualche anno fa mi colpì un’intervista di Lucio Dalla. Il cantante bolognese raccontava che all’inizio della sua carriera faceva musica “d’élite”, poi, dopo l’enorme e inaspettato successo di Piazza Grande, dovette cambiare il suo modo di fare canzoni. «Dovevo rispettare il mio pubblico», sosteneva, «se la gente si emoziona per questo genere non posso rimanere chiuso nel mio mondo solipsistico». L’idea dell’artista che “si fa da sé” non regge. La vera arte parla sempre a tutti, magari a livelli diversi, tocca un punto comune a ogni uomo di qualunque latitudine e tempo, in una sorta di comunicazione immediata.

È cambiato anche il modo di rapportarsi con la poesia da parte dei lettori?

Certamente, fino a pochi anni fa la poesia era un patrimonio quasi esclusivamente orale, i nostri padri con facilità potevano recitare a memoria interi pezzi della Divina Commedia. Oggi non è più così, anche se il bisogno di esprimersi non è cambiato. Nella nostra società capita che l’artista debba arrivare a “spiegare” la sua opera per essere compreso. Una follia se pensiamo alle parole di don Giussani, che sosteneva che l’artista è il genio che riesce a dire ciò che tutti sentono ma che non avrebbero saputo esprimere, colui che riesce a rispondere a un’esigenza che lo spettatore non sapeva neanche di avere prima di trovarsi davanti all’opera. Oggi invece l’opera artistica fa notizia solo perché desta clamore, spesso dividendo e creando due partiti opposti. Di fronte a questo mi chiedo quale sia l’esperienza condivisa.

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