
Squalo chi legge
La fragranza della scrittura in funzione di aperitivo

Pubblichiamo per gentile concessione l’introduzione di Renato Farina al libro “Mangia come scrivi”, guida all’“Alta cucina del Nord” di Vittorio Feltri e Tommaso Farina, appena pubblicato per il Gruppo Albatros Il Filo.
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L’idea è stata di Vittorio Feltri. Raccontare il pasto del cronista quale è da più di 60 anni, soffermandosi sui ristoranti da lui più amati: di antica consuetudine o di fresca frequentazione, di tenore lussuoso o di umore popolare, purché sia “Alta cucina del Nord”.
Non è uomo che mangi molto, la sua inveterata magrezza lo testimonia, ma – come già Indro Montanelli – una quantità minima si associa alla pretesa della qualità massima, accompagnata da un nettare delle vigne all’altezza della fettina di salame o del boccone di risotto all’onda. Nei luoghi dove ha pasteggiato e pasteggia – giuro, lo accompagno da trent’anni – non smette di esercitare il beato vizio della curiosità, chiave del suo successo e supremo rimedio alla noia e alla depressione, dimostrandosi anche in questo molto montanelliano.
E questa attitudine inesorabile a voler conoscere il lato invisibile delle cose la pratica nei ristoranti non solo informandosi sulle caratteristiche inedite del piatto e sull’origine delle materie prime, ma soprattutto gli viene inevitabile immergersi nella storia dell’oste e/o dello chef, delle vicissitudini della trattoria e del suo titolare. Si nutre più di queste narrazioni che delle ghiottonerie, che esige siano servite appena appena visibili nel piatto.
Quel brindisi con Montanelli
Vi fu un’eccezione, nella sua carriera di parco mangiatore, e capitò negli otto mesi della sua direzione del Quotidiano nazionale a Bologna. Non resisteva al fascino della scoperta di sempre nuovi deschi e porzioni strabordanti. Ovvio: era condotto su per colli e giù per vicoli da Giancarlo Mazzuca, di cui è notoria la mole da molosso, da qui il soprannome di simpatico “Cagnone”. Il quale era stato vice alla Voce, che somiglia a un gioco di parole, ma in realtà è un modo per glissare sul grande fiasco dell’immenso Indro, che non se ne dava pace.
Ricorderò sempre – era il giugno del 2000 – quando il grande fiorentino volle salutare il suo successore orobico al Giornale venendo al suo tavolo e brindando al sicuro successo di Libero, il cui primo numero era alle viste. Feltri ha rammentato in un libro scritto con Stefano Lorenzetto (Buoni e cattivi) la frase precisa: «Ho saputo che fondi un giornale tuo e ti dico che ce la farai, perché tu, a differenza di me, sai far di conto». Per completezza di informazione completo l’aneddoto: Montanelli aggiunse, per rovinargli un po’ la festa, com’era nel carattere del Fuoriclasse di Fucecchio: «Ti trovo ingrassato» (Al Porto, Milano, Porta Genova).
Contro il pregiudizio meridionalista
Tornato in perfetta linea, Vittorio si è dato un compito preciso, ideando questo libro. Il primo è far godere il lettore ancor prima che si sieda a una delle tavole consigliate, con la fragranza della scrittura in funzione di aperitivo. Mangia come scrivi, nel caso di Feltri (e del suo discepolo Tommaso) significa comunicare eleganza, classe, semplicità, lo stupore per quel che accade, la simpatia per il lavoro di uomini e donne che si trasforma in rispetto per la fatica creativa dello chef, per quella amorevole del cameriere e quella sapiente del vignaiolo che ha cavato vino rosso e bianco dalle viti.
Il secondo lo si ricava dal sottotitolo del volume: “Alta cucina del Nord” vuole combattere un pregiudizio culturale che induce a spregiare e a sfregiare la civiltà gastronomica del nostro Settentrione, e in particolare della Lombardia. La vera cucina italiana sarebbe solo quella da Roma in giù. Questa diceria si è trasformata in sotterranea convinzione anche nelle popolazioni padane e subalpine.
Che cosa mangia Montalbano?
C’è stata una lenta, ostinata opera di penetrazione subliminale con le serie tivù, specialmente della Rai ma non solo, i cui protagonisti sono preti e carabinieri, poliziotti e giudici, commissari e padri di poliziotte, sempre e comunque stanziati presso trattorie di cucine napoletane, sicule, pugliesi o umbre. Che cosa mangia e quali ricette pubblicizza come sublimi il commissario Montalbano? E Frassica, maresciallo di Don Matteo? Alla Rai si è visto sì una volta cucinare in diretta il risotto fuori da trasmissioni specializzate, da Bruno Vespa, Porta a porta, ma è stato più di vent’anni fa e a menare il mestolo di legno era Massimo D’Alema: con tutta la simpatia, non proprio un testimonial del buon vivere padano.
Si riconosce, e ci mancherebbe, che alle latitudini padane, prealpine ed alpine ci sono chef di eccellenza, si ammette che se l’Italia ha dato alla cucina un caposcuola di levatura mondiale questi è il compianto Gualtiero Marchesi, amico personale causa poltrone affiancate alla Scala per la lotteria degli abbonamenti. Ma costui e costoro sono considerati marziani atterrati nel Settentrione del Belpaese per caso, ma essendosi prima nutriti di sapienza culinaria che nulla ha che fare con i fornelli e i focolari vigilati dal “milanesissimo” feldmaresciallo Josef Radetzky, austriaco che imparò e diffuse dalle sue parti, in Boemia e a Vienna, le ricette lombarde regalandocene qualcuna.
Questi magnifici cuochi alimentano – è il caso di dirlo – fame e fama di ristoranti gratificati dalle guide internazionali (specie la Michelin), la cui concentrazione sta sopra o subito sotto il Po. Ma nessuno sottolinea la sorgente lombarda o veneta o friulana o giuliana o emiliana o piemontese o ligure della loro papilla gustativa.
Polenta onore di un popolo
Non è vero che non ci siano ricette che dal Nord Italia non siano passate nella grande cucina. Cotoletta, ossobuco, manzo alla California (che è una frazione di Lesmo), bagna cauda (che in Giappone ad esempio ha sfondato), tiramisù, risotto (e non riso variamente bollito) sono roba italiana. Non esistono solo pizza e maccheroni o lasagne… Le donne delle cascine prima di andarsene nei campi lasciavano il paiolo appeso nel camino o appoggiato sulla stufa economica per minestroni e brodi magari preparati con il collo e le zampe della gallina, perché il resto del pennuto lo cedevano alla cuciniera che preparava leccornie per il borghese o il nobiluomo, alloggiato per l’estate nella villa gentilizia della Brianza o lungo il Piave. Mai rinunciando alla cottura estenuata a fuoco basso dei brasati e degli stufati.
Nelle baite e sotto le alte vette i più splendidi formaggi del pianeta e il burro di malga servivano di condimento a quelli che spiritosamente si chiamavano pasticci di mais. L’adorata polenta, i confini della cui diffusione otto-novecentesca inglobano una civiltà che prende nome da essa, equivale all’onore dei popoli, definiti perciò polentoni, credendo così di svilire questo cibo e chi se ne nutriva. È una fesseria tipica di chi non conosce quanta bontà ma anche quanta sofferenza ci sia dentro questa colata di giallo fumante che invade la tafferia. Ne parla con ammirazione Manzoni, descrivendo il desinare di una famiglia di poveri, per i quali era il solo alimento, ma che splendore, che illusione di sazietà. Mangiare polenta riempiva la pancia, ma se non vi si mescolava latte e verdura, essa spandeva la pellagra ovunque, specie tra bambini.
L’Alta cucina del Nord ha tratto dal grembo della sua tradizione odori e sapori (di stalla, di lago e di mare), colori e allegria (ah, l’oro del risotto e della polenta, il rosso-roseo dei prosciutti, il verde che picchietta il gorgonzola, e l’inondazione grigioverde della cassoeula bagnata festosamente dalla Bonarda!).
Gastronomia con poesia
In quest’opera Feltri ha coinvolto Tommaso Farina, che, incidentalmente è mio figlio, il quale a 18 anni già scriveva recensioni per la guida de l’Espresso a cura di Edoardo Raspelli, e a vent’anni ha cominciato a trattare di vivande e indirizzi golosi per Libero. Soprattutto – glielo riconoscono, oltre a Vittorio e al figlio Mattia per una volta d’accordo, buone forchette oltre che insigni personalità del giornalismo e della letteratura quali Pier Luigi Magnaschi, Stefano Folli, Antonia Arslan, Aldo Cazzullo, Carlo Verdelli, Mario Giordano – ha inventato un modo diverso di recensire ristoranti e affini. Entra nel cuore non solo della pietanza ma dell’esperienza di vita e di gusto da cui essa è nata. Magnaschi lo ha definito “umanistico”. Un po’ come Gianni Clerici raccontava il tennis, lui la gastronomia. C’è della poesia, e la troverete nel Maestro (Vittorio) e nell’Allievo (Tommaso).

Vittorio Feltri e Tommaso Farina, Mangia come scrivi. Alta cucina del Nord, Gruppo Albatros Il Filo 2025, 152 pagine, 15 euro.
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