
«Non vogliamo morire per l’Iran»

I due piani devastati del palazzo colpito dal raid israeliano a Bouchara, nel centro di Beirut, nella zona controllata dai filo siriani di Amal, marcano il salto di qualità nella strategia di attacco israeliana: non più e non solo le basi dei filo iraniani Hezbollah nella periferia sud, ma ora anche i quartieri considerati, sia pur relativamente, sicuri – qui tutto è tragicamente relativo, la vita è relativa, come le alleanze tra i partiti politici e le varie comunità religiose, diciotto in Libano, ognuna divisa in diversi clan e a sostegno di diverse milizie. Sul posto i vigili del fuoco stanno lavorando per rimuovere le macerie. Di fronte c’è un cimitero, tragica metafora di un paese che cammina sull’ orlo della sua bara.
«Ci hanno trascinati in guerra per conto dell’Iran»
Tra la gente c’è chi grida vendetta: «Qui non c’erano armi», dice una donna. Un uomo grida «vogliono spaventare tutto il Libano, noi vogliamo la pace, basta guerra. Qui ci sentivamo al sicuro, ma non è così». Vita e morte si intrecciano.
Sotto il palazzo bombardato (che per Israele era un obiettivo militare e non la sede di una associazione umanitaria come sostiene Hezbollah), è aperto un piccolo bar. Serve caffè arabo bollente profumato di cardamomo, qualcuno fuma il narghilè mentre le squadre di soccorso scavano tra le macerie. Poi i pompieri ordinano l’evacuazione, tutto potrebbe crollare in pochi istanti.

Poco lontano da qui ci sono i palazzi del potere, sia pure solo formalmente occupati: nessuno comanda più in Libano, non il premier in proroga, non il parlamento che non riesce ad eleggere un governo da due anni, e non c’è nemmeno un presidente dopo la scadenza del mandato di Aoun. Soprattutto tra la comunità sunnita, vicina all’Arabia Saudita, e fra i cristiani del Nord si sentono voci sempre più ostili a Hezbollah: «Ci hanno trascinato in una guerra contro Israele per conto dell’Iran. I palestinesi sono un pretesto. Quando scoppiò la guerra civile i palestinesi erano considerati un nemico dagli sciiti. Ora combattono nel nome di Hamas. Il risultato è un milione di profughi. Noi non vogliamo morire per l’Iran».
Hezbollah è l’unica alternativa a uno Stato assente
Lo slogan dell’Iran e dei suoi proxy (Hamas, Hezbollah, Houthi) è la guerra a Israele “sulla strada di Gerusalemme”, ma in Libano i palestinesi da mezzo secolo vivono chiusi nei campi profughi. Non possono lavorare se non all’interno delle recinzioni, cinque città nelle città dove l’assistenza e la scuola sono garantite solo dall’Unwra, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi ora sotto accusa per i legami dei suoi funzionari con Hamas, alcuni dei quali avrebbero partecipato alla mattanza del 7 ottobre a Gaza.
Nei campi profughi dell’Unrwa ci sono 200 mila persone che non esistono se non quando servono per la propaganda. Molti libanesi, soprattutto a sud, li guardano con assoluto disprezzo, li chiamano gipsy, zingari. Non è per loro che vogliono veder distrutte le loro vite. Ma Hezbollah è l’unica alternativa all’inesistente welfare statale, e bisogna accettarne la logica e la strategia. «Non vogliamo il libanistan», ci dice un cristiano che abita in un villaggio sulla montagna, «ma ci sono solo loro a darci cibo e lavoro, che arrivano con i fondi e le armi dall’Iran».
A rischio l’accordo tra Libano e Israele sul gas
Ora c’è il rischio che salti l’accordo siglato due anni fa tra Libano e Israele per lo sfruttamento del gas nel Mediterraneo. Accordo accettato anche da Hezbollah e raggiunto con la mediazione degli Stati Uniti. Un’intesa depositata alle Nazioni Unite, un fatto storico, un patto commerciale ma anche diplomatico tra i due paesi che faceva sperare in una possibile pace. Il tesoro custodito sotto il mare, l’enorme giacimento di gas, era la grande speranza per far rinascere il paese e far cessare i rumori delle armi.
Ma ora da Israele arriva il monito del ministro dell’energia, Eli Choen: «È stato un errore, dobbiamo correggerlo», ha detto, cioè cambiare le regole a favore del più forte. Il generale libanese Khalil Gemayel, cristiano, ha risposto che un accordo internazionale non può essere messo in discussione, soprattutto per una guerra che è stata scatenata da una fazione, sia pure potente, e non dallo Stato libanese.
«Il Libano ha bisogno di un governo»
L’editorialista de L’Orient le Jour Fifi Abou Dib scrive: «La comunità internazionale dice: aiutatevi che vi aiuteremo. È il tempo per i libanesi di abbandonare i propri fantasmi e le ridicole divisioni e che i capi partiti superino le puerili aspirazioni di gloria. Il momento è ben più grave, ma si discute per sapere chi metterà il proprio deretano sulla valle della Bekaa. Il Libano ha bisogno di un presidente e di un governo attivo. La pace verrà e quelli che restano inchiodati alla mentalità del secolo scorso non sopravviveranno».
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