
Israele stretto tra Hamas e Hezbollah

Dal Libano la Jihad islamica annuncia di aver rinforzato l’alleanza con gli Hezbollah, il partito di Dio, nato come organizzazione combattente negli anni Ottanta, fondamentalista, filo iraniano, votato alla guerra con Israele che aveva spinto i carri armati con la stella di Davide fino a Beirut per eliminare la presenza palestinese. Rimasero in Libano per tre anni.
Ora la dichiarazione del leader della Jihad in Libano, Ihsan Ataya, che ha parlato con Repubblica, segna un passo verso la minaccia di un attacco a Israele sul fronte nord. Si teme la formazione di una forza che potrebbe unire altre fazioni palestinesi e filo iraniane, sunniti e sciiti, chiamando alle armi i giovani cresciuti nei campi profughi di Tiro e Sidone, palestinesi disprezzati dalla popolazione libanese, anche musulmana. Li chiamano “gipsi”, zingari.
«Liberare la Palestina»
Ora le cose potrebbero cambiare e quegli “zingari” potrebbero fornire nuova manovalanza al terrore, nonostante la presenza di diecimila soldati dell’Onu, oltre mille italiani, che dovrebbero garantire il confine tra Libano e Israele, collaborare a costruire strutture civili, sminare i terreni. Sono molti i campi profughi palestinesi in tutto il Medio Oriente costruiti a ridosso dei confini o nelle città della Cisgiordania. Famiglie che discendono dai palestinesi fuggiti nel 1948, dopo la sconfitta, la “Nakba” la chiamano, la “catastrofe”. Sperano sempre di ritornare, di annientare Israele: i loro figli hanno perso ogni speranza, ma ora sembrano volersi riorganizzare, rispondere alla chiamata alle armi.
Ataya dice: «La politica la lasciamo ad Hamas, il nostro lavoro è solo la resistenza per liberare la Palestina». E accusa esplicitamente i paesi arabi di aver abbandonato la causa palestinese, sostenuta, ribadisce, solo dall’Iran. Parole che arrivano come macigni mentre i paesi arabi si riuniscono ancora una volta al Cairo per cercare una via d’uscita: una soluzione al problema degli ostaggi e per evitare una guerra nell’intera regione.
L’uranio dell’Iran
Non è arabo l’Iran, ma islamico e fondamentalista. Per Israele è il pericolo maggiore. Sta arricchendo i suoi siti nucleari, nonostante il progetto sia stato rallentato due anni fa dal bombardamento della centrale di Natanz e l’uccisione, con un sofisticato congegno manovrato a distanza, dello scienziato nucleare iraniano Mohsen Fakhrizadeh.
Fonti di intelligence riferiscono che lo stoccaggio delle scorte di uranio arricchito, indispensabile per costruire la bomba atomica, è stato ridotto, ma, secondo l’Agenzia Atomica Internazionale, esso resta molto superiore al limite stabilito (è questo che ha portato alle sanzioni contro Teheran). Gli impianti sono stati spostati più in profondità, in tunnel sotterranei nell’Iran centrale dove sarà difficile attaccarli.
Le tre fasi
Il mondo guarda con il fiato sospeso quanto sta avvenendo nello scenario medio-orientale. E la guerra di Gaza è la miccia che sta bruciando nella polveriera. Una miccia che più volte è stata accesa e in qualche modo fermata, ma mai eliminata. Israele non può fermarsi dopo il massacro di 1.400 suoi cittadini, uccisi da Hamas. Non può lasciare al loro destino i 200, e forse più, ostaggi. Deve eliminare Hamas.
Un’operazione che si svilupperà in tre le fasi. Lo ha detto alla Knesset, il Parlamento israeliano, il ministro della Difesa Yoav Gallant. La prima fase è «un impegno prolungato di fuoco su Gaza con una manovra di terra per l’eliminazione dei membri di Hamas e delle strutture» della fazione. La seconda è «una fase intermedia per eliminare i nidi di resistenza». La terza è «la creazione nella Striscia di una nuova realtà di sicurezza sia per i cittadini di Israele sia per gli stessi abitanti di Gaza».
Non parla di Stato palestinese e nemmeno di una Autorità Autonoma, come l’Anp in Cisgiordania. Sembra non fidarsi più dei palestinesi di Fatah guidati dal vecchio Abu Mazen, eredi di Arafat, con il quale Israele aveva firmato accordi di “pace”, la road map, e nemmeno di una forza di interposizione formata da paesi arabi o dall’Onu. Israele si fida solo di se stesso, sapendo che deve fronteggiare più di un pericolo: la minaccia interna al suo territorio, compresi i kamikaze risvegliati dalla propaganda fondamentalista, la polveriera di Gaza, il fronte libanese. La presenza in Siria di gruppi legati ad Hamas e Hezbollah. Israele vede minacciata non solo la sicurezza dei suoi cittadini, ma di tutti gli ebrei in tutto il mondo. E deve affrontare e risolvere l’incubo iraniano contro il quale non bastano i carri armati e le incursioni.
Il “dopo” Gaza
Il “dopo” Gaza, comunque si risolva, se si risolve, deve tenere conto di tutti questi fattori. E di sette milioni di palestinesi che, anche se non si sentono rappresentati dal terrorismo di Hamas, della Jihad e delle varie fazioni, reclamano il diritto ad avere una terra, far studiare i figli, poter vivere in pace.
Non hanno voce. Miliardi e miliardi di dollari sono stati spesi in questi anni, arrivati dalle Nazioni Unite, dall’Europa, dai Paesi Arabi. Ufficialmente per progetti di cooperazione e aiuti umanitari. Non hanno placato i bisogni di una popolazione allo stremo. Ma le armi, quelle sì, continuano ad arrivare.
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1 commento
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Non mi convinceva dall’inizio la narrazione per cui Israele non permetta la fuga da Gaza nè l’ingresso degli aiuti umanitari.
Nessun tg o quotidiano fa il nome di chi stia bloccando il valico, unico non controllato dall’esercito Israeliano.
Dopo aver letto titolini e titoloni su Rafah devo, come spesso mi accade, imbattermi ancora una volta in un intervento di Federico Rampini su “Il Tempo”, che chiarisce chi e perchè blocchi questa via di fuga e contemporaneamente di accesso.
L’Egitto.
L’Egitto, a ragione o torto, sta obiettivamente affamando il popolo Palestinese ma nessuno lo dice.
Nessuno accusa l’Egitto, nessuno lo condanna, nessuna manifestazione contro al-Sisi.
Perchè questo pudore?
Roberto Zandomeneghi