«Il nuovo Codice degli appalti è una buona notizia, chi polemizza fa masochismo»

Di Peppe Rinaldi
02 Aprile 2023
Il costituzionalista Guzzetta promuove, nel metodo e nel merito, lo strumento voluto dal governo (e spinto da Draghi): «La rivoluzione della pubblica amministrazione non ha colore politico»
Salvini codice degli appalti
Il vicepremier e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini durante la sua visita nel cantiere della quinta corsia dell'autostrada A8, lo scorso 7 febbraio (foto Ansa)

Fatta la legge trovato l’inganno? No, fatta la legge trovata la polemica. A giudicare dal rumore avvertito nel circuito del dibattito pubblico, l’approvazione del nuovo Codice degli appalti targato Matteo Salvini ha suscitato, com’è normale, perplessità e malumori da un lato, applausi e speranze dall’altro. Ma cos’è questo nuovo strumento il cui fine dichiarato è la velocizzazione oltre che la semplificazione delle procedure per gli appalti della pubblica amministrazione, eterna croce e delizia di almeno mezz’Italia? Tempi ne ha parlato con il professor Giovanni Guzzetta, ordinario di Istituzioni di diritto pubblico all’Università di Tor Vergata di Roma.

Professore, cominciamo con una domanda secca: il nuovo Codice degli appalti è una buona notizia in sé?

Certamente sì. Sia nel merito che nel metodo. L’infuriare della polemica politica su ogni tema, che ormai dilaga come un’epidemia, rischia di essere l’ennesima prova di masochismo tutto italiano. Molti di coloro che sono intervenuti in questi giorni, anche tra gli opinionisti e gli addetti ai lavori, liquidando con qualche battuta e spesso contribuendo a quella che io chiamo la “disinformazione di qualità”, sembrano dimenticare che il nuovo Codice degli appalti segna comunque un traguardo importante. Innanzitutto nel metodo. Il nuovo Codice è il frutto prima di tutto del lavoro di una commissione mista di tecnici nominati dal compianto presidente del Consiglio di Stato Franco Frattini e composta da eminenti giuristi, sia della magistratura che dell’accademia. A ciò si è aggiunto il ruolo propulsivo prima del governo Draghi e poi dell’attuale e il controllo politico delle commissioni parlamentari di Camera e Senato. Il tutto in poco più di un anno. Anche per merito di tempistiche rigorose (e rispettate) determinate dalla circostanza che si trattava di uno degli obiettivi del Pnrr. Nel merito esso contiene importanti innovazioni che traggono spunto dalla consapevolezza di criticità emerse dall’applicazione della disciplina precedente e dalle opportunità offerte dall’evoluzione tecnologica e informatica oltre che dalla positiva contaminazione, di ascendenza anche europea, legata all’idea dell’amministrazione di risultato. Ovviamente come tutte le cose umane il Codice verrà sottoposto alla prova dei fatti e, come sempre avvenuto in questa materia, si potrà intervenire per correggere e integrare. Ma negare che sia un fatto positivo significa avere una posizione pregiudiziale e anche non avveduta sul piano tecnico.

Qual è la principale novità introdotta?

Sul punto bisogna premettere che, a differenza di quanto spesso si è portati a pensare, anche per equivoci riconducibili alla comunicazione informativa e alla complessità dei temi, i problemi principali del sistema degli appalti non riguardano le procedure di gara in senso stretto, ma le fasi preliminari e quelle successive all’aggiudicazione. In particolare la progettazione, che spesso presenta vizi e falle che si riflettono poi sulla necessità di correzioni e sull’allungamento dei tempi di esecuzione, quando non addirittura sulla paralisi delle stesse. Si tratta di cose note agli addetti ai lavori, che il grande pubblico intuisce constatando la mole di opere “incompiute” di cui è testimone. Il Codice mira a intervenire soprattutto su questi aspetti, dando centralità, come dicevo, alla cultura del risultato, che costringerà tutte le amministrazioni a uno sforzo di ammodernamento, innanzitutto, culturale e di competenza. Una sfida enorme. Il principio del risultato come versione evolutiva del principio costituzionale di buon andamento non sostituisce, ma integra quello di legalità, di trasparenza e di concorrenza. Inoltre, dovrebbe essere sempre più chiaro che le fasi in cui si suddivide l’attività di appalto pubblico costituiscono un tutto unitario. Un processo a ciclo unico, in cui ogni passaggio è in grado di agevolare o al contrario frenare quelli successivi.

In che cosa si differenzierà, nel concreto, dal vecchio?

Oltre a quanto ho appena detto aggiungerei che fondamentale è la centralità dell’informatizzazione e della digitalizzazione, che trovano applicazione in ogni ganglio di questo complesso meccanismo. Dalla programmazione e progettazione sino ai controlli. Il cosiddetto Bim (building information model) consente di pervenire a un livello di dettaglio della progettazione tale da scongiurare che in fase di esecuzione contrattuale possano sorgere contestazioni dell’appaltatore derivanti da errori progettuali. Evitando così nuovi oneri o la necessità di correggere il progetto, di richiedere varianti se non addirittura la rinuncia dell’appaltatore e il blocco dell’opera. Ma non si tratta solo di un tema di efficienza, ma anche di trasparenza e di legalità. La digitalizzazione consente la tracciabilità, la certezza, le verifiche in modo assai più accurato e puntuale anche a posteriori. La sfida è implementare tutto ciò nell’attuazione. Che va ben al di là delle norme di legge.

C’è una relazione stretta con il programma di attuazione del Pnrr (ed i relativi problemi di ritardo denunciati dal ministro Fitto) oppure l’introduzione di questo nuovo strumento sarebbe stata necessaria indipendentemente dalle esigenze e dagli obblighi derivanti dal contesto politico europeo?

Il Pnrr ha certamente una rilevanza in sé, ma influisce anche sulla modalità di fare programmazione e realizzazione, con tempistiche serrate, sulla necessità di visione, sulla rigorosa accountability della gestione della spesa. Le difficoltà che emergono e di cui si parla in questi giorni sono un costo forse inevitabile del cambiamento di cultura dell’amministrazione al quale certamente non eravamo del tutto preparati. Basti pensare ai problemi legati alla necessità straordinaria di formazione e di aggiornamento delle competenze. È necessaria una rivoluzione che riguarda innanzitutto la pubblica amministrazione, ma non solo, e che richiede fisiologicamente tempi di adeguamento. Dovremmo uscire da quella logica masochistica e autolesionistica di cui parlavo all’inizio e capire che anziché lucrare sulle inefficienze e sulle difficoltà, serve, certo, rigore, ma anche un concorso costruttivo di tutti. Perché questa sfida non ha un colore politico. Mette in gioco l’intero sistema-paese e tutti gli “amministratori”, presenti e futuri, quale che ne sia l’appartenenza politica. In questa impresa riusciamo o falliamo tutti insieme. Cioè l’intero paese.

Secondo lei cosa non funzionava nel vecchio Codice che, però, non ha subìto modifiche nella nuova stesura e che invece andava cambiato?

Francamente ritengo che chi ha elaborato il nuovo Codice fosse perfettamente consapevole dei nodi da sciogliere. Non vedo eclatanti peccati di omissione. Ovviamente si tratta di un testo di più di 200 articoli e di 400 pagine di allegati che è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 31 marzo. La verifica del suo impatto praticamente non è nemmeno iniziata.

I sindacati, abbiamo visto, allo stato sono poco entusiasti della novità perché immaginano che la disciplina sottostante dei subappalti penalizzerà i contratti dei dipendenti. È un rischio concreto oppure è un riposizionamento delle organizzazioni del lavoro?

Confesso che è una posizione che non capisco. Ovviamente comprendo la preoccupazione di tutelare i lavoratori, ma non riesco a cogliere in che misura e sotto quali profili il nuovo Codice dovrebbe minacciare le tutele acquisite. E certo, anche guardando alla legislazione europea, non si può demonizzare di per sé l’istituto del subappalto, inteso anche come strumento per il coinvolgimento delle piccole e medie imprese in questo settore. Detto questo, mi sentirei di rassicurare sul fatto che il nuovo Codice mostra una particolare attenzione nel regolare l’applicazione di tale istituto proprio a tutela dei lavoratori, con chiare ed espresse indicazioni, in continuità anche testuale con la disciplina precedente.

Le imprese possono festeggiare, disperarsi o accontentarsi a suo giudizio?

Io credo che le imprese sane non possano che trarre vantaggio da una riforma che faccia chiarezza sui nodi critici del passato, imponga all’amministrazione maggiore efficienza e sia chiara nei rapporti con esse. Gli oneri, non solo economici, ma soprattutto amministrativi cui le imprese sono sottoposte sono già elevatissimi. A essi si aggiungono gli oneri occulti discendenti da una disciplina oscura o suscettibile di consentire le più varie interpretazioni, ciò che in passato purtroppo è successo con troppa frequenza. Un po’ di certezza del diritto in più è già un risultato di cui essere soddisfatti. E anche la digitalizzazione può contribuire notevolmente alla certezza.

L’ex ministro Sacconi, circoscrivendo il discorso non solo al Pnrr, ha detto a Tempi che l’Italia paga in maniera pesantissima la bugia di un indice di corruzione oltre la media “occidentale” con riverberi negativi sulla formazione delle leggi. Com’è andata secondo lei nel caso del nuovo Codice?

Io credo che le patologie vadano sempre combattute, ma con due avvertenze. La prima è che non si può legiferare avendo in mente solo le patologie. Una legislazione solo difensiva non può essere un volano di sviluppo. Combattere le patologie non può essere il solo obiettivo di una disciplina che serve soprattutto per poter fare le cose nell’interesse pubblico. La seconda avvertenza è che esiste un modo formalistico di combattere le patologie, mettendo solo ostacoli e sfiancando l’imprenditoria sana nello sforzo di superare prove, spesso diaboliche, per dimostrare di non essere deviata. Viceversa le patologie si combattono stabilendo regole e parametri di comportamento, certo, ma anche strutturando i controlli in modo qualitativamente intelligente, lavorando su indici sintomatici, facendo verifiche serie. Un lavoro molto più difficile di quello di dire “no” a priori. Anche in questo la digitalizzazione aiuta. Se tutto può e dev’essere tracciato, chi opera in modo distorsivo e patologico deve sapere e sentire che prima o poi le tracce lasciate verranno scoperte. Ma appunto senza meccanismi paralizzanti generalizzati motivati solo dalla cultura del sospetto e dall’incapacità di fare controlli qualitativi e non solo formalistici. Le autorità di controllo hanno tutti gli strumenti per realizzare una svolta culturale anche nel proprio approccio alle patologie.

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