Guerra in Ucraina. Vattani: «Dobbiamo porci la domanda sul “come” riportare la pace»

Di Emanuele Boffi
23 Gennaio 2023
Dopo quasi un anno di conflitto, va trovata una soluzione che protegga gli ucraini e crei un sistema di sicurezza che coinvolga anche i russi. Intervista a tutto campo all'ex ambasciatore
guerra ucraina

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Dopo ormai undici mesi di guerra, ancora nessun segnale indica una possibile via d’uscita al conflitto che insanguina l’Ucraina dopo l’invasione russa del 24 febbraio. Anzi, tutto sembra procedere verso la direzione opposta, come ha scritto Gian Micalessin in un commento apparso sul Giornale: “La nuova prospettiva è la guerra infinita”. Secondo il New York Times, gli Stati Uniti sono intenzionati ad autorizzare l’Ucraina a utilizzare le armi americane per colpire la Crimea, obiettivo ritenuto intoccabile da Vladimir Putin. Washington ha autorizzato l’invio di altri 2,5 miliardi di dollari di armi a Kiev e a Ramstein, in Germania, nove paesi europei hanno ribadito il loro sostegno militare al presidente Volodymyr Zelensky.

Niente di nuovo sul fronte orientale, dunque, dove si continua a morire. Ormai sembra rimasto solo papa Francesco a invocare la pace. «Sì, è vero», dice a Tempi Umberto Vattani, ambasciatore di lungo corso e oggi presidente della Venice International University. «Ma lo stesso Pontefice sa che non basta invocare la pace, occorre mettere in campo armi diverse da quelle che oggi rimbombano sul territorio ucraino, le armi della diplomazia e del dialogo».

Cosa è la pace

Vattani è reduce da un incontro con Romano Prodi e monsignor Paul Richard Gallagher, segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati, nel quale ha cercato, innanzitutto, di chiarire un concetto: «Che cos’è la pace? E più facile definire la guerra che la pace. La pace non è una specifica condizione sociale o politica orientata alle relazioni amichevoli ma una realtà caratterizzata da ambiguità e complessità. La pace non è assenza di conflitti, una situazione di perfetta armonia, di rapporti idilliaci dove tutti si vogliono bene».

Questo, spiega l’ambasciatore, forse era possibile nell’Eden, ma non nel nostro mondo. Per comprenderlo, basta entrare in un’aula parlamentare, in un qualsiasi consiglio d’amministrazione. «Nelle nostre società assistiamo costantemente a situazioni di conflitto dove tutti sono pronti ad azzuffarsi, i singoli, come i gruppi o le nazioni: la natura umana è tale perché gli individui, i partiti, gli organi dello Stato portano avanti interessi divergenti. I conflitti e le tensioni appartengono alla quotidianità, costituiscono una componente inevitabile della vita. La pace è assenza di guerra? A volte, per preservare la pace serve la forza, occorre inviare missioni di peace keeping, presidiare un territorio manu militari. I conflitti non sono per definizione negativi perché possono generare creatività, essere un arricchimento per l’individuo, i gruppi, le istituzioni. Il progresso avviene spesso attraverso continue mediazioni e quasi sempre con l’individuazione di soluzioni innovative».

Operare per la pace non è semplicemente invocarla. «Affermare di essere “per la pace” può farci sentire dalla parte dei giusti, ma non ci fa fare un passo verso la conquista di una condizione di pace stabile e durevole. Il punto è come attenuare i conflitti, come risolverli, come minimizzarli e come gestirli prima che precipitino nello stato paranoico della guerra».

Evitare lo stato patologico della guerra

Quel che vuole dire Vattani è che «la pace è un processo, qualcosa che va riconquistato tutti i giorni». Contrariamente al detto “si vis pace para bellum”, che rischia di accentuare potenziali minacce e di creare situazioni di insicurezza suscettibili di far precipitare la situazione verso conflitti bellici, l’esortazione dovrebbe essere “si vis pacem para pacem”.

«Se vuoi la pace devi elaborare in modo positivo, intelligente il conflitto, il che vuol dire accettare la complessità della realtà, gestire continuamente i conflitti che avvengono nel mondo, evitando che precipitino nello stato patologico della guerra. Il conflitto non va negato, occorre governarlo. La guerra è la situazione paranoica in cui esplodono le tensioni che non riusciamo più a governare col dialogo o i compromessi».

Incontro prima dello scontro

La premessa è importante perché serve a guardare al presente con realismo e senza falsi irenismi. «Oggi siamo in guerra. E “fare la guerra” è più facile che cercare la pace. La guerra annulla le differenze, fa prevalere solo un punto di vista, è il tentativo violento di imporre una certa visione del mondo senza prestare alcuna attenzione alle posizioni dell’altro, seppellisce le differenze e la conflittualità sotto un cumulo di morti e di macerie».

Ci vuole più coraggio nell’affrontare tutti i giorni la complessità e la conflittualità della pace che fare la guerra. «Questo è il compito della diplomazia. Un compito duro, non privo di sofferenza. Per risolvere un conflitto, per mettersi d’accordo occorre trovare soluzioni; è un processo doloroso che implica rinunce, la comprensione del punto di vista altrui, la ricerca di compromessi, la sottrazione di beni, talvolta di territori. Si parla tanto di creatività eppure non ci dedichiamo affatto a creare le condizioni, a inventare quello che i conflitti in atto richiederebbero che inventassimo per affrontarli adeguatamente. Lo dimostra la situazione attuale in cui si continua in modo meccanico a rifornire di armi l’Ucraina senza curarsi minimamente di ricercare la pace».

Che è un compito difficile che implica impegno, fatica e coraggio, «un lavoro che non finisce mai perché bisogna continuamente ricalibrare il proprio punto di vista per “incontrare” l’altro prima che avvenga uno “scontro” da cui poi è difficile tornare indietro. È più faticoso perché richiede lo sforzo di gestire le ambiguità delle situazioni e le inevitabili divergenze tra individui, gruppi di individui e tra nazioni. Non per nulla il cardinale il segretario di Stato vaticano Agostino Casaroli intitolò il suo libro sul suo ventennale lavoro diplomatico Il martirio della pazienza».

«Fino a che punto?»

Eccoci, siamo a questo punto. Man mano che la guerra va avanti, più è difficile parlare di pace. Data l’enormità delle devastazioni, delle drammatiche perdite di vite umane, come attenderci che gli ucraini vogliano parlare di pace? «Li capisco, dopo tante sofferenze, perché dovrebbero rinunciare a qualcosa?». Eppure negli ultimi 7 mesi la linea di demarcazione tra le forze delle due parti è rimasta praticamente la stessa, ciascuna pronta a difendere ogni metro quadrato del territorio. Praticamente una guerra di trincea.

«In diplomazia – prosegue Vattani con Tempi – la domanda sul “come” riportare la pace, anche nelle situazioni più avverse, è una costante. Conosco le obiezioni a questa posizione: chiedere di far cessare il conflitto di fronte agli enormi sacrifici sopportati può sembrare un cedimento, un atto di rassegnazione, di tradimento. Chi si pone questo interrogativo viene interpretato come uno che vuole cedere alla violenza russa o uno che vuole “tradire” il grande sforzo che gli ucraini hanno messo in campo per resistere all’avanzata dei loro nemici. Tutti constatiamo come le posizioni si siano indurite, con richieste, da una parte e dall’altra, sempre più estreme. Ma non possiamo sottovalutare che a marzo vi sarà una nuova escalation di violenze. Quindi io chiedo: fino a che punto le parti sono disposte ad accettare altri disastri, altre perdite di vite umane?».

Fecero il deserto

Il problema è come mettere fine alla guerra. Cos’è che rende questa ricerca così difficile? «Dipende dal fatto che questo conflitto sembra aver assunto le caratteristiche di una “Guerra giusta”, della democrazia contro un regime autocratico, dell’Occidente contro la Russia. Vista così, la guerra non potrebbe concludersi che con la sconfitta della Russia. Ora, nella storia nessuno ha mai sconfitto la Russia: né Napoleone, né Hitler. Mosca ha sacrificato decine di milioni di soldati ma non si è mai arresa. Né è pensabile che accetti oggi una tale umiliazione. E neppure è prevedibile che l’Ucraina possa essere sconfitta».

Quello che complica ulteriormente la situazione «è la diplomazia col megafono», spiega Vattani. Cioè pensare che continue prese di posizione muscolari, che preannuncino da un lato nuovi approvvigionamenti bellici all’Ucraina e dall’altro l’impiego di armi sempre più distruttive da parte russa o evochino l’intenzione di colpire la Crimea o il territorio russo, aiutino a trovare delle soluzioni. «Così facendo accadrà ciò che già diceva Tacito: “Fecero il deserto e lo chiamarono pace”».

Russia e Ucraina

Soluzioni facili non esistono, ammette l’ambasciatore. «Ma la diplomazia ha il compito, direi il dovere, di agire dietro le quinte, entrare nella mente dei contendenti, cercare di comprendere quali obiettivi intendono raggiungere, quali rinunce sarebbero disposte a fare. Diplomazia vuol dire parlare prima o poi con il nemico, direttamente o tramite intermediari. Per fare questo occorre pazienza, riservatezza, acquistare la fiducia dell’uno e dell’altro contendente. È una ricerca difficile, richiede coraggio, implica dolorose rinunce».

È comunque interesse delle parti riflettere su quale potrebbe essere l’esito finale. La diplomazia potrebbe far valere a questo riguardo quanto sia cambiata nel corso dell’anno la situazione geopolitica. «L’Ucraina si trova al centro dell’Europa, possiede l’esercito più forte e meglio attrezzato tra i paesi vicini, ha resistito vantaggiosamente all’aggressione russa, infine esercita un’influenza considerevole nel quadrante europeo. Una posizione ben diversa di quella che occupava all’inizio dello scorso anno. La Russia esce fortemente indebolita, non solo militarmente, e isolata diplomaticamente a seguito della sua disastrosa aggressione. Nei rapporti con l’alleato cinese, Mosca occupa ora una posizione subordinata. I Paesi europei hanno subito un notevole ridimensionamento della loro economia, costretti a rifornirsi di prodotti petroliferi e di gas a prezzi elevati. Le tensioni in atto tra Washington e Pechino penalizzano ulteriormente il commercio internazionale».

Una nuova Helsinki

Altrettanti motivi per indurre la diplomazia, ed è il punto su cui più insiste l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger, è chiedersi qual sia per le forze occidentali l’obiettivo finale di questa guerra. «Bisogna manifestare solidarietà all’Ucraina, ma raddoppiare gli sforzi per cercare di far cessare la guerra. Bisognerà assolutamente ridisegnare uno scenario che garantisca la sicurezza a tutti, certamente in primis dell’Ucraina, ma immaginando soluzioni che non penalizzino eccessivamente la Russia. Ci vorrebbe una nuova Helsinki, aggiornando quegli accordi del 1975, “attualizzandoli” alla situazione presente. Putin e Zelenski non si metteranno mai d’accordo da soli».

La geografia è li a ricordarci che l’Ucraina è al centro dell’Europa e, se non si affronta il problema della sicurezza con una nuova architettura, il paese rimarrà vulnerabile e la Russia continuerà a sentirsi minacciata. «Ci vorrà molto tempo per ristabilire il rapporto della Russia con la comunità europea, ma lasciarla isolata e impotente rischia di essere un gioco pericoloso, essendo la seconda potenza nucleare al mondo».

Paradosso Nato

La narrativa dopo la fine della Guerra fredda è stata che l’ingresso dei paesi dell’ex patto di Varsavia e dei Baltici nell’Alleanza Atlantica avesse «per obiettivo di assicurare una loro maggiore sicurezza, ma questo ha creato un dilemma per la Russia e indebolito la sicurezza di tutti».

Poca attenzione è stata prestata dall’Occidente agli avvertimenti di Mosca secondo cui l’avvicinamento della Nato ai suoi confini sarebbe stata considerata dal Cremlino una minaccia strategica. «Il che fa dire al professore Richard Sakwa dell’Università di Kent, che il centro del problema è “il fatidico paradosso secondo cui la Nato esiste per gestire i rischi creati dalla sua stessa esistenza”».

I sonnambuli europei

Secondo Vattani esiste «un obbligo morale dei paesi europei, paesi fondatori ai quali potrebbe aggiungersi la Spagna, che non hanno una frontiera con la Russia – penso all’Italia, alla Germania, alla Francia -, di muoversi come “artigiani di pace”, per dirla con le parole del Papa, di intervenire per fermare questo eccidio». O direttamente o dando mandato a persone di buona volontà.

E gli Stati Uniti? «Tanti dicono che senza di loro non si può fare nulla… ma la verità è che nulla è impossibile. Se si guarda a medio e a lungo termine, nessuno può desiderare che permangano aree di instabilità e di insicurezza in Europa. Papa Leone Magno, “armato” solo di una veste bianca, fermò Attila».

Rinunciare è il vero delitto. «Lasciare che questa situazione si prolunghi è grave. Lo ha spiegato anche lo storico inglese Christopher Clark in un libro il cui titolo è più che eloquente: I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande guerra».

Le vittime senza voce

Siamo ormai abituati a ponderare ogni dichiarazione di Putin o Zelenski, a informarci sul grado di letalità delle armi messe in campo, valutare ogni sospiro di Joe Biden o Ursula von der Leyen, ma a considerare come inevitabile effetto collaterale le sofferenze di tanta gente.

«Invece è proprio questo il primo punto: parlare delle vittime, dare voce a chi è senza voce. Prepararsi alla fine della guerra, ascoltare il grido d’aiuto di tanta povera gente che vive da quasi un anno in condizioni drammatiche, mediare tra opposti interessi per cercare una soluzione per i territori contesi per i quali si potrebbe proporre, garantendone la sicurezza, una qualche forma di autonomia eventualmente con il ricorso al principio dell’autodeterminazione. Questa dovrebbe essere la nostra prima preoccupazione».

Foto Ansa

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