«Farò partorire chi era uomo». Il traguardo folle del chirurgo che si sente Creatore

Di Annalisa Teggi
23 Novembre 2022
Intervistato dalla Stampa, Miroslav Djordjevic parla di rinascita e redenzione dei corpi dei trans trasformati in mosaici di carne da montaggio grazie alla sua tecnica. Come nel peggiore degli incubi
Stampa uomo partorisce

Stampa uomo partorisce

Al nostro tempo, così generoso di asterischi e maniacale sulle desinenze, rischia di sfuggire il senso pericoloso di certe parole, apparentemente facili da capire. Leggendo il titolo che campeggia sulle colonne della Stampa di ieri, martedì, «Farò partorire chi era uomo», l’attenzione rischia di essere calamitata dall’immagine del maschio che partorisce. Ma è «farò» che fa venire i brividi. Primissima persona singolare, di un soggetto che sale sul trono del tessitore di destini e, come ogni bravo illuso illusionista, insinua di poter tenere il futuro nelle sue mani. Le mani, ribadiamolo, di chi fa.

Quel che resta di un organo genitale nel cestino

A promettere il miracolo dell’uomo che partorisce è il chirurgo serbo Miroslav Djordjevic, le cui mani operano prodigi tra Belgrado e New York. È riconosciuto come uno dei massimi esperti al mondo di tecniche del cambio di sesso e, nell’intervista di cui è protagonista in tutti i sensi, ci tiene a precisare che sarà impegnatissimo fino a fine anno, tanti sono i pazienti che arrivano da lui da Ungheria, Italia, Arabia Saudita, Bosnia, Australia per essere «liberati» dal corpo in cui non si riconoscono. Farà tantissimo, è questa la notizia. Anche se, come nel gioco delle tre carte, il trucco è spostare l’attenzione altrove. Il trucco è dire: «Non si possono fermare i diritti. Aiutiamo i pazienti a sentirsi uguali».

Intanto nel cestino della sua sala operatoria c’è quel che resta di un organo genitale maschile, scarto di un corpo ancora sotto anestesia. Si risveglierà «con un clitoride perfettamente sensibile – promette il dottore, aggiungendo – Nel novanta per cento dei casi, i miei pazienti riescono ad avere una vita sessuale normale e a raggiungere l’orgasmo». La chiama rinascita o redenzione, questa risposta tecnica nell’offrire orgasmi a un corpo che forse è arrivato sul lettino della sala operatoria insieme a un’anima piena di balbettii, evidentemente trascurabili quanto i resti dei genitali impotenti nella spazzatura. Al 100 per cento del mistero sacro e irrisolto che è una persona, il «farò» risponde con un 90 per cento di successo negli orgasmi a venire. E la differenza non è solo del 10 per cento, è l’abisso siderale tra il tutto e la parte. È la voragine tra il bisogno di un’integrità e interezza di sé e la messa a punto di un pene che diventa clitoride funzionante.

Un mosaico di carne da montaggio

Ma il passo di marcia è quello del fare del chirurgo, non dell’essere del paziente. E quindi la cavalcata non si ferma. Non bastano i numeri di un successo da ovazione (150-200 interventi di cambio di sesso all’anno al costo/profitto di 12-14 mila euro da uomo a donna, oltre 20 mila da donna a uomo).

«Farò partorire chi era uomo», dunque. Ci sono due cose chiare in questa frase, il soggetto e l’oggetto. Il soggetto è e resta il chirurgo ricostruttivo urogenitale Miroslav Djordjevic, ansioso di svelare la premura che lo anima: «Vogliamo essere noi i primi al mondo». La sollecitudine che fa scalpitare questo noi-plurale maiestatis è tutta devota alla causa dei cosiddetti diritti del mondo Lgbtq+? Qualcosa lascia intuire che il suddetto plurale maiestatis sia parecchio centrato sui primati personali da appuntarsi al petto.

E lo lascia intuire la parte di progetto riguardante l’ipotesi di creare un database mondiale di candidati transgender per studiare le compatibilità, per non buttare via nessuno scarto genitale e rendere la macchina dei trapianti una vera eccellenza di qualità ed efficienza. Corpi e pezzi, corpi ridotti a pezzi, togli a uno dai all’altro, un mosaico di carne da montaggio. Una redenzione assemblata a puntino.

Lo chiamano padre, lui si sente Padre

Nella grammatica crudele quanto chiara di quel titolo così clamoroso «chi era uomo» è oggetto del fare di un altro. È una trama che segue da vicino le orme di un’altra celeberrima tragedia. Il dottor Frankenstein aveva eccellenti intenzioni e andò a disseppellire cadaveri per dare alla luce la sua creatura. Doveva essere perfetta e felice, fu misera e infelice (si è soliti definirlo “mostro”, ma è un errore madornale).

Non siamo lontano da questa scena, quando una persona è ridotta a oggetto, a parti del corpo da togliere-mettere. Il cadavere è inerte e non si ribella, ed è tendenza comune di certi egomaniaci esercitare le proprie brame sulla docilità dei vulnerabili. Magari rinfocolando la bugia che una «rinascita» corporea sessualmente soddisfacente sanerà il fiato corto e rotto dell’anima. 

Sebbene il dottor Djordjevic ci tenga a dire che molti lo chiamano padre, nessun padre riduce suo figlio a un complemento oggetto. Semmai fa di tutto per renderlo sempre più soggetto, in anima e corpo. Cioè non chiude in fretta la domanda «chi sei?», ma fa in modo che resti struggente e viva fino all’ultimo respiro. E questa mossa resta vera senza bisogno di scomodare la maiuscola del Padre. Ma è evidente che il chirurgo del «farò» quella maiuscola se l’è già assegnata, ci gode nel posto di Creatore.

Il traguardo folle che insegue non è un mondo di transgender felic*. Vuole vedere un corpo maschile a cui vengono innestati organi riproduttivi femminili e che, grazie alla prodigiosa capacità delle sue tecniche, riesca a partorire. Organi, funzioni, processi ed esperimenti. Tutto qui, come nel peggiore degli incubi.

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