Quella “Blonde” non è Marilyn Monroe

Di Gloria Amicone
09 Ottobre 2022
Il brutto non-biopic di Andrew Dominik su Netflix la riduce a vittima del sessismo. Ma lei era di più: un'anima inquieta che amava la vita
Blonde è un film del 2022 scritto e diretto da Andrew Dominik
Blonde, di Andrew Dominik narra la storia di Marilyn Monroe

Deve esserci un che di scandaloso in Marilyn Monroe per non parlare mai di lei. E deve avere un che di “mondano” in chi in questi sessant’anni ha provato a riporre nella sua persona i propri pensieri più scialbi e perversi, riducendo la vita dell’attrice – l’amore, il dolore, la fatica, l’insicurezza, il desiderio, il profondo “senso di sé” veramente provati – a una mera somma di traumi, sfighe, subconsci e inconsci freudiani. A una gonna al vento e a una bionda sfruttata.

Basterebbe leggere unicamente ciò che è stato scritto da Marilyn – le poesie, gli appunti e le lettere contenuti in Fragments e La mia storia scritta a quattro mani con Ben Hecht – per accorgersi che il film Blonde di Andrew Dominik, tratto dall’omonimo romanzo (evidentemente allucinogeno) di Joyce Carol Oates e da poco su Netflix, non è affatto un intreccio tra realtà e finzione, ma un’ennesima menzogna che cela il volto ipocrita e violento di un’ideologia. Marilyn lo sapeva bene che «quando la gente è “mondana” non osa essere umana e intelligente» (La mia storia).

Una banale storia sessista

Ci vuole coraggio per dire che ci sono voluti undici anni per la creazione di un film di quasi tre ore sulla persona di Norma, che non svela mai la persona di Norma. Se Andrew Dominik avesse voluto veramente raccontare il disagio di Norma Jeane Baker, neanche nel più brutto incubo avrebbe mai cambiato l’ordine temporale di una violenza sessuale veramente subita. Ma per una squallida e banale storia sessista non è forse più attraente un abuso al primo provino da attrice che a otto anni? E mai le avrebbe fatto mettere giù quella cornetta rifiutando una parte solo per una questione di soldi.

Norma conosceva la povertà. Sapeva cosa voleva dire vivere per una settimana intera con un sacchetto di pane secco da quindici centesimi. Infatti non lo fece, diventando l’iconica Lorelei in Gli uomini preferiscono le bionde. Quando rifiutò una parte – non Colazione da Tiffany – è perché si vergognava della sceneggiatura. Quello che evidentemente avrebbero dovuto fare Ana de Armas, Adrien Brody, Bobby Cannavale e company. Undici anni per creare una misera sceneggiatura dentro a un lento e caotico cambio di frame rate, bianco e nero e colori. L’unica idea bella è stata quella di dare vita alle foto iconiche della diva grazie a una diligente Ana de Armas. Ma perdono tutto il loro fascino nella simultanea distruzione della vitalità stessa di Marilyn. Quella donna sempre in primo piano, non è lei.

Come si spiega un suicidio?

Il regista è talmente fissato nel denunciare il sessismo, che lo rende palpabilmente vivo dimenticandosi di Marilyn. Dimenticandosi di amarla. Ma forse non lo fa involontariamente. In un’intervista la descrive come «una persona con un senso di sé molto tenue». È famosa, è bellissima, ha un lavoro fantastico, ha frequentato i ragazzi più fighi dell’epoca e si è suicidata. C’è qualcosa in Marilyn Monroe «che sembra dirci che ci sia qualcosa di sbagliato in ciò che vogliamo».

Perché la descrive con così cinica menzogna? C’è qualcosa in Marilyn Monroe che spaventosamente scandalizza Andrew Dominik. Forse una genuina tensione, forse un puro desiderio di realizzazione. Come si può spiegare un suicidio, se si è così vivi?

Lei che voleva essere Giulietta

Marilyn infatti non voleva diventare una star, ma una brava attrice. Tanto che appena ottenne il riconoscimento dell’élite hollywoodiana, si trasferì a New York per studiare recitazione. Non sognava Clark Gable tra le stelle, ma disegnava Dio con il volto di zia Grace e Clark Gable perché trovava impossibile che chi l’amasse davvero non avesse un volto. Per la stessa ragione non voleva i ragazzi più fighi di Hollywood o un uomo che le facesse da padre. E per quanto ne avesse avuti tre, neanche un marito. Voleva solo trovare qualcuno che l’amasse davvero. Tanto che l’uomo a cui lasciò tutta la sua eredità era l’amico e maestro Lee Strasberg.

Marilyn era una cronica insicura che fondò una casa di produzione cinematografica con l’amico Milton Green e, se non fosse morta prematuramente, ne avrebbe fondata un’altra con l’amico Marlon Brando. Non leggeva Whitman e Dostoevskij perché le appiccicassero addosso l’appellativo “colta”, ma per un profondo senso di sé. Per la stessa ragione avrebbe voluto interpretare personaggi come Grouchenka o Giulietta.

Solitudine – sii quieta

Marilyn non poté mai vivere con sua mamma, visse in nove famiglie diverse, venne abusata, ricevette avances sessuali – rifiutate – eppure “salvò” un pianoforte bianco (La mia storia) che vent’anni prima le aveva regalato sua mamma, perché quello che voleva salvare era una santa e inspiegabile gratitudine.

Marilyn non era una sottomessa. Era una spostata di Hollywood, una donna profondamente viva. A volte voleva arrendersi, a volte si sentiva stupida, a volte sola – bellissimo quell’appunto: «Loneliness – be still» “Solitudine – sii quieta”. (Fragments). Si fidava della sua sensibilità, delle «sensazioni più delicate e intangibili» (Fragments). Amava la natura, la realtà – ponti, alberi, fiumi -. Affermava la vita: «Non ho avuto Fede nella Vita cioè nella Realtà – qualunque cosa sia o succeda non c’è niente a cui attaccarsi – se non la realtà per realizzare il presente qualunque esso sia» (Fragments).

Desiderare non è sbagliato

Anche quell’ultima sera, in quella tensione nell’afferrare la cornetta, Marilyn affermava la vita.

Forse c’è qualcosa in Marilyn Monroe che sembra dirci che ci sia qualcosa di sbagliato nello spiegare la sua morte. – Cosa ci fanno lì se non la libertà e il mistero? -. Ma sicuramente non c’è niente in Marilyn Monroe che sembra dirci che ci sia qualcosa di sbagliato in ciò che desideriamo. In Marilyn c’è qualcosa che ci desta a farlo. Vi auguro con tutto il cuore di incontrarla. Di amarla.

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