Iraq, nazionalismo ed espansione della rivoluzione iraniana dietro agli scontri di Baghdad

Di Amedeo Lascaris
01 Settembre 2022
I disordini costati decine di morti e centinaia di feriti nei giorni scorsi non sono soltanto l'ennesima crisi di un paese allo sbando da diciannove anni. La posta in gioco è molto più alta
Iraq scontri Baghdad
Sono almeno 33 i morti e oltre 300 i feriti negli scontri avvenuti dal 29 al 30 agosto a Baghdad (foto Ansa)

In diciannove anni l’Iraq ha delineato la sua immagine associandola a caos, conflitti interreligiosi, attentati devastanti, povertà diffusa, corruzione divenendo terra di scontro per potenze regionali. Seguendo questa linea, i disordini costati almeno 33 morti e oltre 300 feriti avvenuti dal 29 al 30 agosto scorso a Baghdad potrebbero rappresentare l’ennesima crisi di un paese allo sbando. Tuttavia, i video di manifestanti armati che assaltano la Zona verde – “il fortino” realizzato dagli Stati Uniti per proteggere istituzioni e ambasciate dagli assalti dei gruppi armati – raccontano molto di più rispetto alla solita narrativa.

I due personaggi chiave: Al Sadr e Al Kadhimi

Per comprendere la posta in gioco occorre analizzare due personaggi. Il primo è il 48enne religioso sciita di nome Muqtada al Sadr, personaggio camaleontico di difficile collocazione all’interno di categorie politiche ben definite, soprattutto per gli occidentali, ma bollato dalle testate internazionali come “populista”. Il secondo personaggio è l’attuale premier ad interim ed ex capo dell’intelligence irachena, Mustafa al Kadhimi divenuto premier nel maggio 2020. Musulmano sciita, “amico” di Washington, Kadhimi è considerato l’uomo che ha portato equilibrio nella politica del paese e grazie alla sua profonda conoscenza dei “dietro le quinte” di ogni gruppo politico e armato ha evitato la caduta dell’Iraq nelle mani del vicino Iran e quindi in una guerra civile con i musulmani sunniti. Nel 2021, Kadhimi è sopravvissuto a un tentativo di omicidio compiuto nella sua abitazione, probabilmente ordito da fazioni filo-iraniane.

Infine, occorre inquadrare la crisi nel complesso sistema basato sulla denominazione religiosa utilizzato per porre fine alla guerra civile libanese nel 1989. Come già sperimentato in Libano, un sistema di questo tipo impone una convergenza delle tre principali denominazioni religiose ed etniche, nel caso iracheno musulmani sciiti, sunniti e curdi, per nominare presidente parlamento (riservato ai sunniti), premier (riservato ai musulmani sciiti) e capo dello Stato (scelto fra i curdi). Lo stallo seguito alle elezioni del 10 ottobre ha impedito in questi mesi non solo la nomina di un premier, ma anche quella di un nuovo capo dello Stato (a causa delle divisioni tra i partiti curdi a cui per convenzione spetta la carica) e un presidente dell’Assemblea legislativa.

La “rivoluzione” guidata da Al Sadr

Gli eventi di questi giorni si modellano sulla figura controversa di Muqtada al Sadr e alla sua “rivoluzione” iniziata prima contro l’occupazione statunitense nel 2003 in seguito contro lo Stato islamico e i gruppi di matrice jihadista, poi contro i gruppi paramilitari addestrati e armati dall’Iran. A innescare ufficialmente questa ultima rivolta è stato l’annuncio del ritiro di Al Sadr dalla vita politica a nove mesi dal risultato ottenuto alle elezioni legislative di ottobre 2021 dove la coalizione Al Sairoon, meglio nota come Movimento sadrista, ha ottenuto 74 seggi su 329, sorpassando i rivali sciiti filo-iraniani e diventando primo partito del parlamento, senza però avere i numeri per governare da sola.

In questi nove mesi, Al Sadr e i suoi sostenitori hanno cercato più volte di scaricare sulla piazza le tensioni tra le fazioni sciite, accusando i rivali della coalizione nota come Quadro di coordinamento guidata dall’ex premier Nouri al Maliki, di incapacità politica e di rispondere in sostanza agli interessi dell’Iran. In questi mesi, Al Sadr ha fornito vari ultimatum ai suoi rivali per nominare un premier consapevole che non avrebbero mai avuto i numeri per raggiungere tale scopo, per poi chiedere a gran voce le elezioni anticipate e lo scioglimento del parlamento prima con il ritiro di tutti i suoi parlamentari dall’Assemblea il 12 giugno, poi con le manifestazioni davanti alla sede della Camera dei deputati durate per tutto luglio e culminate con l’occupazione fisica dell’edificio il 31 luglio.

Infine, dopo l’inascoltato appello alla magistratura per uno scioglimento della Camera dei deputati i sadristi hanno assaltato la sede del Consiglio superiore della magistratura il 22 agosto. Ogni volta è bastato un ordine di Al Sadr per riportare la calma. Tuttavia, quanto accaduto lo scorso 29 agosto ha rappresentato una delle peggiori crisi dal 2003, alimentando lo spettro di una guerra civile dietro l’angolo.

Un campanello d’allarme per il futuro dell’Iraq

A rendere i disordini di questa settimana un vero campanello d’allarme per il futuro del paese e anche un “segnale” all’Iran è stato un episodio che avrebbe proprio a Teheran la sua origine: la richiesta dell’ayatollah Kadhim al Haeri, in passato mentore di Al Sadr, di giurare fedeltà alla guida suprema dell’Iran, ayatollah Ali Khamenei. Per comprendere la portata di tale dichiarazione occorre analizzare i rapporti tra i due Paesi che affacciano sul Golfo persico caratterizzati da una maggioranza islamica sciita. Dal 2003 l’Iran ha avuto una presenza crescente nel paese, sfruttando la caduta di Saddam Hussein (sunnita) e la salita al potere degli sciiti per decenni perseguitati dal regime del partito unico Baath. 

Teheran ha sostenuto pesantemente i gruppi sciiti armati, compresi i sadristi, durante la guerra civile, mentre costruiva i propri gruppi direttamente affiliati, come Asaib Ahl al Haq (le cosiddette milizie della Mobilitazione popolare irachena) e Kataib Hezbollah, che nella guerra contro lo Stato islamico sono divenute potenti milizie alle dirette dipendenze dei Guardiani della rivoluzione iraniana e del generale Qassem Soleimani, comandante della Forza Quds dei pasdaran, ucciso proprio a Baghdad nel gennaio 2020.

L’appello a giurare fedeltà a Khamenei

Al Haeri è stato uno degli allievi prediletti del grande ayatollah e guida degli sciiti iracheni, Mohammad Sadeq al Sadr, nonno di Muqtada, da cui si separò negli anni Settanta andando in esilio a Qom, in Iran. Dopo la morte di Sadeq al Sadr nel 1999, Al Haeri aveva fornito nei primi anni Duemila legittimità a Muqtada designandolo come suo rappresentante in Iraq consentendo al giovane leader sciita di raccogliere molti adepti fra i seguaci dell’anziano ayatollah. Nonostante il deterioramento dei rapporti con Al Haeri dovuti alla rapida deriva nazionalista di Muqtada, quest’ultimo ha mantenuto dalla sua gran parte dei seguaci del religioso.

In questo contesto l’appello di Al Haeri a giurare fedeltà a Khamenei avrebbe rappresentato per Al Sadr un declassamento. Lo stesso Al Sadr ha affermato su Twitter, divenuto ormai il principale medium per i suoi messaggi, che le dimissioni di Al Haeri «non sono state di sua spontanea volontà», lasciando intendere che il religioso avrebbe subito pressioni dallo stesso Khamenei.

La Zona verde a Baghdad è diventata campo di battaglia

Da qui la decisione di mandare un forte segnale direttamente all’Iran, probabilmente anche con l’appoggio del premier Al Kadhimi, che grazie anche all’aiuto di Al Sadr è riuscito in questi anni a stringere un rapporto con l’Arabia Saudita, convitato di pietra nell’arena irachena. Per inviare un segnale importante alle milizie sciite filo-iraniane, i sostenitori di Al Sadr hanno preso d’assalto il Palazzo repubblicano, uno dei simboli dell’Iraq monarchico e poi di Saddam, utilizzato ora per le riunioni del gabinetto di governo, costringendo le forze di sicurezza ad annunciare prima un coprifuoco a livello della capitale Baghdad, ma in seguito a tutto il paese, a causa dell’estendersi delle manifestazioni anche nelle provincie di Bassora, Dhi Qar e anche a Kirkuk, nel nord dell’Iraq.

Dai primi scontri con le forze di sicurezza intenzionate a proteggere i palazzi governativi, il confronto è passato dai sostenitori di Al Sadr, tra cui le Brigate della pace (Saraya Salam in arabo, forza paramilitare sciita nata nel 2003) a quelli con esponenti delle milizie della Mobilitazione popolare sciita, probabilmente vero obiettivo della rivolta. In strada sono comparse armi pesanti, granate a propellente, mortai razzi, trasformando la Zona verde di Baghdad in un campo di battaglia. Il confronto, ufficialmente con le forze di sicurezza, ma soprattutto contro le Pmu spesso al seguito dell’esercito nelle zone a totale maggioranza sciita, si è esteso ai governatorati di Bassora, Dhi Qar e Maysan, dove hanno sede i principali giacimenti petroliferi iracheni, ma dove la presenza delle milizie sostenute dall’Iran è storicamente molto forte anche all’interno delle aziende petrolifere.

Iraq, Al Kadhimi minaccia le dimissioni

Altro fattore importante è che la rivolta dei sostenitori di Al Sadr è avvenuta nel periodo che precede l’Arbaeen, la festa religiosa sciita che si tiene 40 giorni dopo l’Ashura (il martirio dell’imam Hussein) e che vede centinaia di migliaia di pellegrini fluire dall’Iran verso la città santa di Kerbala. Le violenze hanno infatti coinvolto anche pellegrini iraniani giunti in pullman in Iraq e visto molti sostenitori di Al Sadr, ma anche tanti cittadini comuni, strappare gli striscioni inneggianti a Soleimani e ai leader delle Pmu sparsi in molti quartieri, e anche palazzi di governo, nelle città del sud dell’Iraq. Altro elemento è rappresentato dall’ipotesi di un rilancio dell’accordo sul nucleare iraniano, con Teheran che deve rispondere alla controproposta consegnata la scorsa settimana dagli Stati Uniti.

Voci parlano di divisioni risolvibili con un’intesa che potrebbe essere annunciata il prossimo 5 settembre, ma ovviamente, non vi è ancora nulla di certo. Intanto, dopo l’ordine di Al Sadr di porre fine immediatamente alle proteste, la calma è ritornata in Iraq e gli sviluppi sembrano fornire ragione, almeno per ora al leader sciita “nazionalista”. Il presidente iracheno, il curdo Barham Salih ha evidenziato le necessità di tenere elezioni anticipate per risolvere la crisi in Iraq, mentre da parte sua il premier Al Kadhimi, divenuto in questi mesi l’ancora di salvezza di un Paese allo sbando, ha minacciato di dimettersi nel caso in cui proseguiranno i disordini.

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