
Colloqui su Skype per i detenuti, a Trieste è partita la sperimentazione
Si smette di essere padri o madri, perché si è dietro alle sbarre? Dato che il carcere limita la libertà dell’individuo, come si può non spezzare il filo invisibile che lega i genitori ai figli? In che modo si possono tutelare le famiglie dei reclusi, che non hanno colpa? È per rispondere a queste domande che la casa circondariale di Trieste ha avviato un progetto sperimentale: il detenuto T.M. ha avuto il suo primo video-colloquio tramite Skype con il corpo insegnanti della classe frequentata dal figlio minore, residente in un comune nella provincia di Udine, al fine di conoscerne l’andamento scolastico. Grazie ai volontari dell’associazione Onlus Auxilia sono state attrezzate due postazioni informatiche ad hoc. «Anche un padre detenuto ha il dovere di esercitare la genitorialità. E noi, come amministrazione, dobbiamo favorire questo dovere» spiega il direttore del carcere, Enrico Sbriglia.
Fondamentale è stata la collaborazione del mondo della scuola, in particolare della dirigenza scolastica e dei docenti direttamente interessati, «che hanno fornito il loro contributo con grande tempestività. Si tratta della prima sperimentazione del genere in Italia, e probabilmente in Europa». C’è stato un percorso di preparazione affinché T.M avesse la possibilità di far sentire al figlio la sua presenza affettiva nonostante i numerosi anni di esperienza detentiva. Si tratta di un protocollo assolutamente inedito, e l’uomo stamattina ha illustrato la sua esperienza alla stampa: «Ho parlato con i docenti di mio figlio in un momento importante della sua vita di studente. È stata una grande emozione e soprattutto un’esperienza che non pensavo di poter sperimentare da detenuto».
Il progetto rientra in un’ottica più generale di tutela dei familiari dei detenuti: «Bisogna riportare lo spazio di oggettiva sofferenza della pena all’interno di un perimetro che tenda a non superare lo stato giuridico del condannato» prosegue il direttore del carcere. In altre parole, occorre scongiurare che gli effetti dolorosi derivanti non coinvolgano più dell’inevitabile anche altre persone, che nulla hanno fatto di penalmente rilevante, ma che vengono inevitabilmente coinvolte. In questo senso, potrebbe trattarsi di un precedente interessante: basta con le attese snervanti, i lunghi viaggi per raggiungere la casa circondariale (spesso lontana dalla città di origine), le perquisizioni e i metal detector nelle sale degli incontri. Sarebbe necessario solo un computer e la presenza di un agente. L’utilizzo di Internet dal carcere potrebbe non riguardare solo i parenti. Sbriglia pensa anche ai consulti medici e ai detenuti stranieri, magari privi di documenti. «Potrebbero comunicare con le rispettive ambasciate per fornire le proprie generalità. Più in generale, le nuove tecnologie renderebbero più immediata la comunicazione tra i detenuti e la pubblica amministrazione».
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