Hong Kong rifiuta la farsa della «democrazia con caratteristiche cinesi»

Di Leone Grotti
20 Dicembre 2021
Alle elezioni di domenica, dove potevano candidarsi solo «patrioti» (cioè uomini del regime), hanno ovviamente vinto i partiti pro establishment. Ma si è recato alle urne solo il 30% degli aventi diritto. Nel 2019 aveva votato il 71%
Urne vuote per le elezioni a Hong Kong
Urne vuote per le elezioni a Hong Kong (foto Ansa)

Le elezioni di domenica a Hong Kong hanno dato il risultato che tutti si aspettavano: i 90 seggi del Consiglio legislativo sono stati occupati da «patrioti», cioè da candidati favorevoli al regime comunista cinese, come previsto dalla legge approvata a marzo per escludere preventivamente i candidati pro democrazia. Ma quello di ieri si può a malapena definire “voto” e non ha nulla a che fare con la democrazia.

Hong Kong ai «patrioti» (comunisti)

In base alla risoluzione approvata a marzo da Pechino, e tradotta in legge dal governo di Hong Kong, al Consiglio legislativo potevano candidarsi solo «patrioti», cioè persone che non abbiano violato in alcun modo la legge sulla sicurezza nazionale, la quale vieta qualsiasi critica al regime cinese e ogni espressione in favore della democrazia. I candidati sono stati selezionati da una commissione con potere di veto, che ha escluso i pochi candidati democratici che hanno deciso di correre ugualmente e che non erano stati chiusi in carcere. Per evitare ogni rischio, il governo ha addirittura punito per legge di fare campagna per votare scheda bianca.

Trattandosi della prima votazione dall’approvazione della legge sulla sicurezza nazionale nel 2020, che ha spazzato via i diritti umani e civili dei cittadini di Hong Kong, il voto è stato da subito considerato come un plebiscito sulla riconquista anticipata della città da parte del regime. La governatrice Carrie Lam ha ovviamente festeggiato il risultato, affermando che la nuova legislatura aprirà un’era di «ottima governance» per la città. Ma sono parole che non hanno alcun significato: gli unici candidati votabili erano quelli favorevoli all’establishment cinese.

La gente diserta le urne

Essendo il risultato scontato, l’unico dato in grado di riflettere il sentimento della popolazione di Hong Kong è quello dell’affluenza. E questo parla chiaro: si sono recati alle urne soltanto 1,3 milioni di cittadini, pari al 30,2 per cento degli aventi diritto. Neanche uno su tre. Rispetto alle elezioni del 2016, l’affluenza è crollata di quasi 30 punti percentuali. Allora aveva votato il 58,28% degli aventi diritti.

Ancora più emblematico il paragone con l’ultimo voto libero in città, quello del novembre 2019 per l’elezione dei consiglieri distrettuali. Allora votò il 71 per cento degli aventi diritto e i candidati democratici conquistarono quasi l’intera platea dei seggi a disposizione. L’incredibile successo riscosso dai democratici è sicuramente tra le ragioni che hanno convinto Pechino a spingere sull’acceleratore nello smembramento del movimento pandemocratico di Hong Kong.

La farsa della democrazia

Dopo le elezioni di domenica, il Consiglio di Stato cinese ha diffuso un libro bianco sui «progressi» fatti da Hong Kong nell’ultimo periodo, soprattutto nel cammino verso la «democrazia». Ovviamente si tratta di «democrazia con caratteristiche cinesi», nella quale non è possibile candidarsi contro i lacchè del Partito comunista, non è possibile fare opposizione, non è possibile votare scheda bianca, non è possibile pubblicare giornali critici dell’establishment, non è possibile organizzare manifestazioni o veglie commemorative o concerti o cineforum. Ultimamente è stato vietato anche di spedire cioccolata agli attivisti democratici in carcere e persino vestirsi di giallo o nero è guardato in modo sospetto dagli zelanti fan del regime.

Che cosa pensino i cittadini di Hong Kong di questa «democrazia con caratteristiche cinesi» è presto detto. Il 70 per cento della popolazione, quello che non è andato a votare domenica, la ritiene una farsa.

@LeoneGrotti

Foto Ansa

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