Afghanistan: i Paesi arabi temono il ritorno dello Stato islamico

Di Amedeo Lascaris
03 Settembre 2021
Dal Qatar all'Arabia Saudita passando per l'Egitto, mappa per orientarsi tra le varie posizioni politiche dei paesi arabi nei confronti dei talebani
talebani in Afghanistan

talebani in Afghanistan

Da Rabat a Riad il ritorno dei talebani in Afghanistan viene visto con un misto di preoccupazione e rassegnazione nei Paesi arabi. A due settimane dalla conquista senza combattere di Kabul e a pochi giorni dal ritiro completo delle forze Usa e Nato il mondo arabo ha già in parte delineato i suoi schieramenti, dettati soprattutto da ragioni di stabilità politica in un Medio Oriente allargato che ormai non è più negli interessi strategici degli Stati Uniti.

Un obiettivo resta chiaro: evitare che lo spettro del terrorismo islamico, accarezzato e sostenuto in passato da diverse leadership regionali, ritorni a far da padrone.

Il Qatar coi talebani

Le reazioni alla disfatta Usa e alla vittoria talebana sono state varie e con sfumature differenti. Partendo dal Golfo, culla di un certo Wahabismo che dal 1979 fino ai primi anni Duemila ha cercato di influenzare e sostenere a suon di petrodollari l’ideologia Deobandi dei talebani, il Qatar è stato il Paese che per primo ha commentato la presa di Kabul. Il 18 agosto in una conferenza ad Amman, in Giordania, il ministro degli Esteri, Mohammed bin Abdul Rahman al Thani, ha lanciato un appello per un trasferimento pacifico del potere in Afghanistan che apra la strada a una soluzione politica globale. Dobbiamo fare un «lavoro con i partner internazionali e le Nazioni Unite per aiutare a ripristinare la stabilità in Afghanistan» e mettere in sicurezza il popolo afghano «il prima possibile».

Insieme al Pakistan, il Qatar è il Paese che ha sostenuto maggiormente la posizione dei talebani negli ultimi 8 anni, ospitando i suoi leader e favorendone la trasformazione “moderata” con l’istituzione nel 2013 dell’ufficio politico a Doha, operando in modo diverso da quanto avvenuto nel 1996, quando solo Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati riconobbero il primo regime guidato dal mullah Omar.

L’approccio multiforme degli Emirati

Il principale rivale regionale del Qatar, gli Emirati hanno mostrato un approccio multiforme, più vicino a quello occidentale, mostrando fino all’ultimo il proprio sostegno al governo di Kabul e offrendo asilo al fuggiasco presidente Ashraf Ghani.

Tuttavia, la decisione di ospitare Ghani deriva da un calcolo di opportunità. Abu Dhabi ha una “tradizione” di offerte di asilo ai leader fuggiaschi o sotto sanzioni – l’ex presidente pakistano Pervez Musharraf, l’ex premier thailandese Thaksin Shinawatra, fino a re Juan Carlos di Spagna – che ha usato in questi anni come metodo per entrare nel consesso di Paesi in grado di influenzare le dinamiche geopolitiche regionali.

Non a caso alcuni esponenti di spicco della leadership emiratina hanno inviato anche messaggi quantomeno concilianti ai talebani. Uno di questi è Anwar Gargash, ex ministro di Stato per gli Affari esteri e attuale consigliere diplomatico del presidente emiratino, Khalifa bin Zayed Al Nahyan, che su Twitter ha definito in un primo tempo «incoraggianti» gli annunci fatti dai talebani su amnistia e ruolo donne.

Sia il Qatar che gli Emirati si sono dimostrati inoltre fondamentali per i voli di evacuazione dei Paesi Nato da Kabul, facendo transitare dai loro aeroporti decine di migliaia di persone, tra occidentali e civili afgani, con stime che parlano di 28.000 civili transitati dalle basi aeree emiratine e 43.000 da Doha.

La posizione dell’Arabia Saudita

L’Arabia Saudita, la cui priorità per ora resta la guerra in Yemen e lo scontro l’Iran, si è contraddistinta per il suo pragmatismo con il ministero degli Esteri saudita che in più di un’occasione ha ribadito di stare dalla parte del popolo afghano, sottolineando che «dovrà scegliere da solo il suo futuro senza interferenze».

Riad e Abu Dhabi figurano tra i Paesi che avevano riconosciuto il primo regime dei talebani nel 1996. Gli Emirati attesero fino agli attentati dell’11 settembre del 2001 per tagliare i rapporti con il governo del mullah Omar, mentre l’Arabia Saudita tagliò i rapporti molto prima, già nel 1998 quando gli “studenti coranici” si rifiutarono di consegnare a Riad Osama bin Laden, che si era fatto un nome combattendo l’occupazione sovietica in Afghanistan negli anni ’80 ed è stato privato della sua cittadinanza saudita per gli attacchi nel regno e attività contro la famiglia reale.

Kuwait, Oman, Egitto e Marocco

Il Kuwait si è accodato alla posizione della comunità internazionale esortando le parti afghane a esercitare «la massima moderazione per prevenire spargimenti di sangue» e per garantire «la piena protezione dei civili e l’uscita sicura dei diplomatici bloccati e dei cittadini stranieri».

Più complessa la posizione dell’Oman, con il Gran Mufti dell’Oman, lo sceicco Ahmed bin Hamad Al Khalili, che il 16 agosto, il giorno dopo l’annuncio della presa di Kabul, si è congratulato con il popolo afghano per quella che considerava una «chiara conquista e vittoria sugli invasori aggressori».

L’approccio dell’Egitto resta al momento enigmatico. Il presidente Abdel Fattah al Sisi ha affrontato direttamente la questione con il capo della Cia William J. Burns il 17 agosto al Cairo, ma vi sarebbe la volontà di aprire dei canali di comunicazione con i talebani, anche con la mediazione di Turchia e Qatar. Intanto, Al Azhar, il centro di formazione islamica più importante dell’islam sunnita, ha evacuato i suoi 40 religiosi da Kabul e chiuso momentaneamente la sua rappresentanza.

In Marocco, il Partito per la giustizia e lo sviluppo, il più importante del Paese, ha affermato, tramite il suo portavoce Muhammad al Hamdaoui, che il movimento, vicino alla Fratellanza musulmana, segue gli sviluppi in Afghanistan e sostiene «l’indipendenza del popolo afghano da tutte le interferenze straniere».

L’approccio dell’Iran

La posizione araba non può non tener conto delle mosse dell’Iran. Teheran non ha fatto mistero in questi giorni della sua gioia per la disfatta Usa e da tempo aveva allacciato rapporti con i talebani, nel tentativo di evitare problemi lungo i suoi confini. Esplicito è stato il commento del nuovo presidente, il conservatore Ebrahim Raisi, il quale ha affermato che «la sconfitta militare americana deve diventare un’opportunità per ripristinare la vita, la sicurezza e una pace duratura in Afghanistan».

Tuttavia, quello molti già individuano come un “sostegno” di Teheran ai talebani, non deve essere confuso con un appoggio come quello avvenuto da parte dei sauditi ed emiratini durante gli anni ‘90 che aveva anche un fondamento ideologico-religioso. L’approccio dell’Iran è un modo per sfruttare la disfatta Usa, aumentare il suo potere negoziale anche nei rapporti con l’amministrazione Biden e, soprattutto, garantire sicurezza sui porosi confini orientali. L’Iran condivide un confine di oltre 900 chilometri con l’Afghanistan.

L’apertura della diga

Inoltre l’arida provincia orientale del Sistan e Baluchistan dipende per le sue forniture dal fiume Helmand, il più importante dell’Afghanistan. Infatti, alla base dell’approccio conciliante dell’Iran nei confronti dei talebani vi sarebbe l’apertura della diga di Kamal Khan situata nel distretto afghano di Chahar Burjak a circa 43 chilometri dal confine iraniano.

Dopo aver conquistato la provincia di Nimruz il 6 agosto, la prima a cadere sotto il controllo dei talebani durante l’avanzata verso Kabul, il gruppo armato avrebbe aperto le chiuse della diga facendo fluire l’acqua nell’arida provincia Sistan e Baluchistan le cui risorse idriche erano drasticamente calate dopo l’inaugurazione del bacino lo scorso marzo. In cambio dell’apertura della diga, l’Iran avrebbe ripreso le esportazioni carburante verso l’Afghanistan il 23 agosto.

Collaborazione per stabilità

Nel clima di incertezza sul futuro dell’Afghanistan e sulla possibilità che ritorno un nuovo porto sicuro per il terrorismo islamico, i Paesi, ma anche Iran e Turchia, hanno già compiuto le prime mosse con l’obiettivo di avere, per quanto possibile, una collaborazione volta al mantenimento della stabilità.

In questo contesto rientra lo storico summit organizzato nella capitale irachena Baghdad lo scorso 29 agosto dal premier Mustafa al Kadhimi a cui hanno partecipato i capi di Stato e di governo di Egitto, Giordania, Qatar, Kuwait ed Emirati e i ministri degli Esteri di Iran, Arabia Saudita e Turchia.

Pericolo Stato islamico

Alla conferenza ha preso parte anche il presidente francese Emmanuel Macron, unico leader occidentale presente all’evento. L’incontro di domenica è stata un’occasione per i leader iracheni di sottolineare i loro recenti sforzi per ritrarre l’Iraq come un mediatore neutrale nelle crisi della regione e di impegnarsi nuovamente con il mondo dopo decenni di conflitto.

La crisi in Afghanistan non era al centro del dibattito ma ha avuto spazio negli incontri bilaterali. Ciò che starebbe preoccupando i Paesi arabi regionali, non è l’eventuale minaccia del regime talebano, ma anzitutto la sua debolezza e fragilità, che potrebbero dare nuova forza, anche sul piano territoriale, a movimenti terroristici come lo Stato islamico.

Foto Ansa

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