Afghanistan, l’esportazione della democrazia è un fallimento

Di Rodolfo Casadei
17 Agosto 2021
Non si fanno guerre nel nome dei diritti umani, ma per valutazioni geopolitiche. E oggi per gli Usa è più importante concentrarsi sulla Cina che contenere i talebani
I soldati degli Usa abbandonano l'Afghanistan

I soldati degli Usa abbandonano l'Afghanistan

Le emozioni sono a mille, ma diciamoci le cose come stanno: gli Stati Uniti e i loro alleati, l’Occidente, non conducono interventi militari in paesi lontani per portarci la democrazia e i diritti umani. L’esportazione dei valori occidentali, visti come la migliore incarnazione storica di valori universali, è solo un argomento che serve a creare nell’opinione pubblica consenso a operazioni che necessariamente comportano perdite materiali e di vite umane. Operazioni che in realtà vengono decise per tutelare e/o promuovere interessi nazionali in base a valutazioni geopolitiche a volte circostanziali, a volte di lungo periodo.

Democrazia e diritti umani non crescono da soli

Quando le valutazioni intorno a questi interessi cambiano, la difesa di un sistema democratico e di diritti civili sul posto non è mai argomento sufficiente a decidere il proseguimento di attività che impegnano grandi risorse e che hanno un costo umano spesso ragguardevole in termini di caduti sul campo e feriti.

In paesi come l’Afghanistan e l’Iraq una larva di Stato di diritto poteva persistere e lentissimamente svilupparsi solo se i due restavano protettorati politico-militari dell’Occidente, perché mancano le forze endogene che possano alimentare l’aspirazione alla democrazia e al rispetto dei diritti umani individuali. La democrazia moderna e i diritti umani come sono definiti nella Dichiarazione Onu del 1948 (che i woke americani e i progressisti europei hanno in realtà superato, con le loro politiche dei “nuovi diritti”) sono il prodotto di una storia plurisecolare che comincia con la Magna Charta inglese, passa attraverso le autonomie comunali, la Rivoluzione francese e soprattutto la Rivoluzione industriale: è questa che mette fine ai modi di produzione di impronta feudale, e quindi progressivamente alle strutture politiche eredi del feudalesimo. Sostituisce il lavoro salariato al lavoro artigiano e a quello servile, le classi alle corporazioni e ai clan familiari, gli individui alle tribù.

I dittatori a volte servono

Classi e individui – realtà che prima della Rivoluzione industriale non esistevano – chiedono rappresentanza politica: così nasce la democrazia moderna e le carte dei diritti umani. In Italia il suffragio universale maschile è arrivato all’indomani della prima guerra mondiale, il voto alle donne all’indomani della seconda. In Iraq e in Afghanistan il voto nelle libere elezioni democratiche coincide al millesimo con l’appartenenza a un’etnia, a un clan, a una famiglia: un ibrido fra democrazia moderna e struttura feudale della società che non può funzionare. L’unico elemento universale che supera quelle appartenenze, e quindi può garantire la coesione nazionale e la continuità dell’indirizzo di governo, è quello religioso, che in Afghanistan è rappresentato dai talebani.

Queste cose gli statisti e gli strateghi occidentali le hanno sempre sapute, e infatti in giro per il mondo hanno sempre affidato la tutela dei propri interessi contro l’avanzata del comunismo e dell’Unione Sovietica o semplicemente contro l’anarchia non agli uomini politici e alle forze più inclini alla democratizzazione e al rispetto dei diritti umani, ma a quelli che garantivano la coesione dello Stato, il contenimento delle forze insurrezionali e/o centrifughe, l’affidabilità delle forze armate. E la cosa funzionava: Mobutu nello Zaire, lo scià in Iran, i militari in America Latina, Marcos nelle Filippine, ecc. hanno tenuto lontano il pericolo comunista per decenni senza che fosse necessario impegnare sul terreno centinaia di migliaia di soldati occidentali e spendendo somme decisamente convenienti per mantenere la lealtà di questi uomini forti che garantivano una passabile stabilità nei loro paesi.

I regimi del Golfo contro gli islamisti

Questa politica viene condotta ancora oggi con gran parte dei paesi arabi per contenere non più la minaccia sovietica, ma quella islamista: prima Mubarak e poi Al Sisi in Egitto, i militari in Algeria, i sauditi e gli emiri del Golfo sono i nostri alleati indefettibili nella lotta per contenere l’espansione dell’islamismo jihadista, pur incarnando i regimi meno democratici e rispettosi dei diritti umani che si possano immaginare.

Da tutto ciò si potrebbe dedurre una regola generale: se per qualche vicenda della storia hai insediato i tuoi soldati in un paese esterno all’Europa occidentale e al Nord America, e hai fatto di quel paese un protettorato di fatto, imponendo le tue regole e i tuoi valori, ricordati che il giorno che deciderai di togliere le tende le cose ritorneranno esattamente come stavano prima. L’appropriazione di un sistema politico sofisticato come quello della democrazia e dello Stato di diritto avviene soltanto sul lungo periodo, man mano che il sistema economico feudale viene sostituito da un sistema economico più moderno, che comporta la decadenza anche dei valori sociali feudali.

ll pericolo del fondamentalismo

Detto in un altro modo: se oggi gli americani chiudessero le loro basi militari in Giappone (ma non lo faranno e i giapponesi non lo chiedono, perché si allunga minacciosa l’ombra della Cina), il Giappone resterebbe democratico e dotato di un approccio ai diritti umani simile a quello occidentale, perché 75 anni sono stati sufficienti ad accompagnare le trasformazioni endogene.

Ma se domani i nostri soldati dovessero andarsene dal Kosovo e dalla Bosnia, in men che non si dica riprenderebbero le guerra balcaniche e insieme ad esse andrebbero persi tutti i progressi relativi allo Stato di diritto, alla democraticità dei loro sistemi politici, ecc.

Insomma: la condizione per il radicamento del rispetto per i diritti delle donne e dei bambini in Afghanistan era di rimanere lì con una forte presenza militare per altri 50 anni; ma siccome oggi è più importante concentrare le forze nella sfida con la Cina per l’egemonia globale, e in Afghanistan si può cercare di attrezzare una trappola per farci cadere dentro Cina, Russia e Iran, da Kabul ce ne andiamo. Così ragionano a Washington. E in Europa se ne prende atto, con giustificatissima inquietudine: che ascendente eserciterà il rinnovato emirato islamico dell’Afghanistan sui musulmani delle periferie delle grandi città europee? C’è proprio da trattenere il fiato.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

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