«Non respiriamo». Il regime abbandona la gente del Myanmar in pasto al Covid

Di Aung Kyaw
21 Luglio 2021
La dittatura usa il virus per annichilire gli oppositori. A Yangon oltre mille morti al giorno, ospedali collassati. E mentre è caccia all'ossigeno la Cina blinda il confine
Myanmar, manca l'ossigeno, a Yangon oltre mille morti al giorno di Covid
Myanmar, manca l'ossigeno, a Yangon oltre mille morti al giorno di Covid

Come molti degli stranieri legati al Myanmar, ho trascorso le ultime ore cercando di aiutare amici a procurarsi concentratori di ossigeno, bombole di ossigeno e fiale di remdesivir, indispensabili in un paese dove il sistema sanitario ha sostanzialmente cessato di esistere e il Covid sta mietendo migliaia di vittime.

La crisi portata dal Covid è esplosa in tutta la sua violenza a Yangon da circa dieci giorni: nonostante la dittatura militare tenda a minimizzare i numeri, e a ostentare sicurezza attraverso i media sotto il suo controllo, chiunque segua il Myanmar sa che non c’è famiglia che non abbia membri malati e che non abbia subito lutti negli ultimi giorni. I report che arrivano dai gruppi di volontari presso i crematori parlano di ben oltre mille morti al giorno nella sola Yangon. Cifre che paiono quasi sottostimate in considerazione dei tanti lutti che hanno interessato la mia cerchia di relazioni.

La donna nascosta senza ossigeno

La storia della persona che sto cercando di aiutare racchiude in sé molti dettagli che dimostrano la complessità della situazione: si tratta della madre di una dottoressa che appartiene al movimento di disobbedienza civile, nato in risposta al colpo di Stato, e che ora vive nascosta dal regime in una città di media grandezza lungo la riva dell’Irrawaddy. La madre si è ammalata di Covid (e ha ora un livello di saturazione attorno a 90), pochi giorni dopo aver ricevuto uno sfratto dall’abitazione dove la famiglia era nascosta – sfratto verificatosi a causa di faide interne alla famiglia dei locatari, relative alla proprietà dell’abitazione (quando sei ricercato da un regime militare non hai il lusso di poter controllare lo stato di proprietà di un immobile).

In assenza di numeri precisi, l’entità della crisi sanitaria in corso si intuisce dal tasso di positività al test Covid che, dopo essere stato costantemente sopra il 25 per cento nel corso della scorsa settimana, è schizzato ieri al 37,29 per cento. È da circa un mese che i media locali riportavano notizie di un intensificarsi di casi di Covid in particolare a Kalay, vicino al confine con l’India, ma questa terza ondata – verosimilmente nella sua variante delta – è arrivata a Yangon come uno tsunami, mentre la città si stava preparando a resistere alla dittatura militare, impostasi a partire dal febbraio scorso.

Il virus alleato dell’esercito

L’ombra del Covid si è quindi insinuata in un paese dove il colpo di Stato, e la violenta repressione alle proteste che ne è seguita, hanno spazzato via un già fragile sistema sanitario. Il governo civile a guida di Aung San Suu Kyi, in realtà, era stato universalmente lodato per la sua capacità organizzativa nel contenere il virus nei mesi scorsi (pur nell’ambito di una forte crisi economica), ma tale successo aveva in qualche modo derubricato l’importanza dello stesso nella percezione delle persone, specialmente rispetto alla crisi politica che ora attanaglia il paese. Oggi, tuttavia, il Covid si è ripreso il palcoscenico.

Per la giunta militare la crisi sanitaria è una chiara occasione per consolidarsi. È facile capire come l’imposizione di lockdown e una pandemia che fiacca ogni forma di resistenza tornino a vantaggio di una dittatura: le permettono, quantomeno, di guadagnare tempo. Ogni forma di opposizione politica è oggi congelata e, dopo un colpo di stato, ogni giorno guadagnato permette di “normalizzare” la percezione internazionale della giunta. Più passa il tempo, più il colpo di Stato è un “fait accompli”.

Vietata la vendita di ossigeno

L’esercito, tuttavia, è andato ben oltre il prendere tempo. La vendita di ossigeno a privati è divenuta illegale, sviluppando un mercato nero dell’ossigeno del tutto inadeguato a colmare la forte domanda. I concentratori di ossigeno vengono normalmente sequestrati: il concentratore che la mia amica era riuscita a importare d’urgenza è stato confiscato alla dogana, destino comune ai tanti che ci hanno provato. L’unica strada possibile è il contrabbando – quello che in molti legati al movimento di disobbedienza civile stanno ora provando a fare, per rifornire gli ambulatori clandestini, che tuttavia subiscono raid costanti da parte dei militari. Per giorni le farmacie sono state chiuse, e non hanno comunque più forniture, particolarmente di materiale protettivo contro il virus.

L’inferno di Yangon

In questo momento, a Yangon, non c’è un solo ospedale disponibile per accogliere malati di Covid. L’unico ospedale privato che ancora accoglieva malati, previo un deposito di circa 1.400 euro (all’incirca il Pil annuale pro capite medio nel paese) ha chiuso i battenti la settimana scorsa.

La giunta militare ha iniziato a costruire dei “centri di accoglienza” per i malati che sembrano lazzaretti dei secoli scorsi, e sostanzialmente privi di equipaggiamento. Luoghi da cui la popolazione si tiene alla larga, ragione per cui anche i test Covid ufficiali vengono, se possibile, evitati. La maggior parte dei malati non fa test, a parte pochi che acquistano test antigenici al mercato nero e se li fanno da soli a casa.

Senza vaccini verso i 400 mila morti

Finora, stando ai numeri dichiarati dal ministero della Sanità in mano al regime, poco più del 3 per cento della popolazione ha ricevuto una dose di vaccino. Queste poche persone sono spesso legate al regime, mentre la gran parte della popolazione ne è rimasta esclusa. L’esercito annuncia oggi l’imminente arrivo di appena 750 mila dosi di vaccino cinese, e si attende l’arrivo di circa due milioni di dosi di Sputnik russo (acquistati dal generale Min Aun Hlaing nel corso di un suo recente viaggio in Russia), del tutto inadeguate di fronte all’entità dell’emergenza in corso.

In tali circostante, il dottor Zaw Wai Soe, ministro della Sanità del governo parallelo (il governo di unità nazionale costituito in opposizione al regime e di cui Aung San Suu Kyi è formalmente a capo) si aspetta 400.000 morti se non si riuscirà a predisporre una risposta adeguata all’emergenza. Mary Callahan, professoressa della University of Washington e una dei maggiori esperti di Myanmar, rilancia studi secondo cui, quando l’emergenza Covid sarà conclusa nel paese, avrà decimato dai 10 ai 15 milioni di persone.

La Cina blinda il confine

Di fronte a un tale disastro, la Cina è l’unico paese confinante con una politica chiara: si stanno erigendo barriere elettrificate al confine, nella speranza che questo basti a contenere i contagi. La Cina, inoltre, sta fornendo vaccini e assistenza medica ad alcuni dei gruppi etnici armati, con lo stesso obiettivo di contenere le trasmissioni al confine. Il resto dei paesi dell’Asia non si è ancora pienamente reso conto di quanto l’emergenza sanitaria in Myanmar sia fuori controllo e di come si possa facilmente propagare al di fuori dei confini.

Ieri le Nazioni Unite hanno annunciato il rafforzamento dei loro sforzi nel paese: hanno pianificato di vaccinare il 20 per cento della popolazione entro la fine dell’anno, e la distribuzione di concentratori di ossigeno. Tale piano rischia non solo di essere troppo poco, troppo tardi, ma è difficile pensare che questo non verrà realizzato se non in collaborazione con la giunta militare.

“We have us” e i disobbedienti

“We can’t breathe” (non possiamo respirare) è il grido di dolore, riecheggiante le ultime parole di George Floyd, che circola sui social network in Myanmar. A differenza di Floyd, nessuno sembra in grado di poter rispondere a tale grido, tant’è che l’altro slogan che circola sempre di più sui social è “we have us” (abbiamo noi stessi), che testimonia il grande senso di solidarietà che anima la popolazione birmana ma che, allo stesso tempo, riflette anche la consapevolezza che non ci sarà nessuno a venire in loro aiuto.

Nel corso della scrittura di questo articolo, intanto, sono riuscito a rintracciare le fiale di remdesivir necessarie, attraverso un medico del movimento di disobbedienza civile attualmente ricercato dai militari e che, nel caso in questione, lo vende a un prezzo ragionevole. We have us.

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