Biden non farà la guerra a Putin (per un motivo molto pratico)

Di Rodolfo Casadei
19 Marzo 2021
La sparata del presidente americano contro «l'assassino» russo non pare una gaffe, ma figlia di un calcolo

Non sono del tutto convinto che Joe Biden voglia dichiarare una guerra fredda in grande stile contro la Russia di Putin. Le accuse che ha voluto rivolgere al presidente della Federazione Russa di essere un «assassino senz’anima» hanno ragioni più tattiche che morali, così come le pressioni per impedire alla Germania di portare avanti il progetto North Stream 2 già completato al 90 per cento per l’afflusso di altro gas russo in terra tedesca. Così come è accaduto con le quattro paginette del Rapporto della Cia che indicano nel principe Mohammad Bin Salman il mandante dell’omicidio Khashoggi del 2 ottobre 2018. Biden ha reso pubblico il rapporto sull’omicidio di Stato saudita che il suo predecessore aveva mantenuto confidenziale, ma non ha preso provvedimenti di nessun tipo contro l’”assassino senz’anima” Bin Salman, tranne la vaga promessa di dare più spazio al padre di lui il re Abdelaziz nei rapporti diplomatici Usa-Arabia Saudita.

E Bin Salman?

Il vero scopo della divulgazione del rapporto della Cia e del discredito che getta su Mohammad Bin Salman è quello di mettere sotto scacco i falchi sauditi nel mentre che Washington riprende a tessere la tela degli accordi nucleari con l’Iran, approvati da Obama e poi disconosciuti da Trump. New York Times e Washington Post hanno un bel stracciarsi le vesti per le mancate sanzioni ad personam contro il principe ereditario: da che mondo è mondo, i presidenti degli Stati Uniti prendono le loro decisioni sulla base del rispetto dei diritti umani solo quando gli fa comodo, nella misura in cui gli fa comodo. La centralità del rispetto dei diritti umani nella politica estera degli Usa grazie al ritorno di un democratico alla Casa Bianca è una tradizionale trovata propagandistica dietro cui giustificare interventi militari che, come la guerra della Nato in Kossovo nel 1999, hanno motivazioni prettamente geopolitiche. Gli esempi a rovescio sarebbero innumerevoli, ne basti uno, ben noto a chi come me si occupava molto di Africa negli anni Novanta: nel 1994 l’America di Bill Clinton non intervenne a mettere fine al genocidio del Ruanda, di cui aveva notizie di prima mano come tutte le cancellerie del mondo, per permettere al Fronte patriottico ruandese (Fpr) allora sponsorizzato dalla filo-americana Uganda di Yoweri Museveni di portare a termine la guerra che stava vincendo contro il regime genocidiario e filo-francese degli eredi del presidente Habyarimana perito in un misterioso incidente aereo.

Strategia anticinese

Non credo che Biden voglia spingere fino alle conseguenze ultime una guerra fredda con la Russia di Putin, per un motivo molto pratico: che si troverebbe a combattere contemporaneamente su due fronti, quello della lotta senza quartiere contro la sfida egemonica della Cina di Xi Jinping e quello del ritorno di fiamma della guerra fredda contro l’ex superpotenza sovietica, ora russa, che oggi è ridimensionata ad ambizioso attore regionale. Con la Cina Biden non sarà meno duro di Trump, per il semplice fatto che tutto l’establishment statunitense, democratico come repubblicano, è ormai perfettamente consapevole che la Cina sta conducendo una politica finalizzata a sostituire gli Stati Uniti come architrave dell’ordine internazionale. Raccomando il mio articolo sul numero di aprile di Tempi mensile dove descrivo la strategia anticinese della nuova amministrazione americana, centrata non solo sui dazi e le barriere commerciali ereditati da Trump, ma su una specie di embargo tecnologico da realizzare col supporto degli alleati, secondo geometrie variabili a seconda che si tratti di microprocessori, terre rare, intelligenza artificiale, ecc.

Un avversario alla volta

Ma è dai giorni del presidente repubblicano Richard Nixon e del segretario di Stato Henry Kissinger che gli Usa hanno optato per una politica che permetta di concentrare le risorse su di un avversario strategico per volta, cercando l’intesa con quello al momento meno pericoloso: si spiegano così gli accordi con la Cina di Mao nel 1972, quando ancora gli Usa erano impegnati in Vietnam e i cinesi mandavano le armi ai nordvietnamiti. Oggi i ruoli fra sovietici (russi) e cinesi sono invertite: i secondi sono capaci di una proiezione economica molto superiore a quella dei primi, che inoltre non dispongono più dell’arma ideologica dell’appello ai proletari di tutto il mondo. Agli Usa conviene di più trovare un modus vivendi con la Russia – di Putin o di qualcun altro, ma la Russia resterà sempre la Russia finché esisterà, cioè resterà sempre un paese che deve essere internazionalmente ambizioso per salvaguardare la sua coesione interna – che con la Cina, perché l’avversario più pericoloso per i suoi interessi siede a Pechino piuttosto che a Mosca.

Picche e ripicche

Tuttavia l’approccio duro di Biden ha un senso quando si considera che i russi hanno cercato di influenzare le elezioni presidenziali americane del 2016 e del 2020 a scapito del candidato democratico, che nel secondo caso era proprio Joe Biden. Nessuna inchiesta ha potuto dimostrare la complicità di Donald Trump o del suo entourage con le manovre russe, e anzi questo approccio fazioso da parte dei democratici alla questione ha indebolito la reazione americana. Ma è fuor di dubbio che i tentativi di condizionare il voto a scapito dei candidati democratici ci siano stati, e questo non poteva restare senza risposta da parte del presidente la cui elezione i russi avevano cercato di evitare. Naturalmente Mosca può controbattere che i primi a cercare di interferire con le faccende politiche altrui sono stati gli americani, appoggiando questa o quella parte politica nelle repubbliche ex sovietiche, per esempio Ucraina e Bielorussia; naturalmente gli americani risponderanno che in quei paesi la gente ne aveva e ne ha abbastanza dei governi filo-russi, e i russi controrisponderanno  che anche gli americani ne hanno abbastanza delle politiche pseudopopolari, in realtà elitarie e manipolatorie, dei democratici, e così via. Qui non interessa la dialettica propagandistica fra le due potenze, ma la logica geopolitica: Biden doveva lanciare un messaggio vigoroso a Mosca, che non se lo aspettava perché reputava gli americani troppo concentrati a costruire una strategia anticinese efficace. Gli americani hanno fatto sapere che nessuno potrà approfittarsi del fatto che sono occupati a controbattere l’ascesa di Pechino.

Se Biden ha fatto una gaffe

Se poi veramente l’amministrazione Biden vorrà perseguire una politica di regime change a Mosca, ci troveremo a fare i conti con un errore tattico colossale: destabilizzare il governo russo equivale a destabilizzare la Russia, paese sterminato che alloggia migliaia di testate nucleari e altre armi di distruzione di massa, e che non passerà dall’autoritarismo attuale alla democrazia di tipo occidentale con una transizione a regia straniera. C’è il rischio che Biden, da presidente di un paese democratico, agisca anche per compiacere gli umori popolari, determinanti per la sua rielezione. E negli Usa la popolarità di Cina e Russia è ai minimi storici, come ha rilevato l’ultimo sondaggio Gallup: solo il 22 per cento degli americani ha una visione favorevole della Russia, solo il 20 per cento ha una visione favorevole della Cina. Urge la mediazione dell’Europa, in particolare di quei paesi, come la Germania e l’Italia, che storicamente sono stati più capaci di articolare una politica complessa nei confronti di Mosca.

Foto Ansa

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