La ricetta Draghi potrebbe non bastare

Di Marco Boleo
06 Gennaio 2021
L’analogia proposta dall'ex presidente Bce con la spesa durante la Grande Guerra è pertinente, ma dobbiamo stare attenti alle conseguenze.

«Whatever it takes» (in italiano “costi quel che costi”) è il motto che ha salvato l’euro nell’estate del 2012, quasi quattro anni dopo il crollo della Lehman Brothers, che aveva innescato una reazione a catena portando il sistema finanziario mondiale, e quindi l’economia capitalista globale, sull’orlo del collasso.

Mario Draghi, allora a capo della Banca Centrale Europea (Bce), fece questa ormai famosa promessa durante un meeting a Londra, che ebbe l’effetto di incanalare mille miliardi di euro di liquidità della Bce verso le banche dell’Eurozona stimolando l’acquisto di oltre due trilioni di titoli di stato serviti a salvare l’Eurozona da una probabile dissoluzione.

Da quando Mario Draghi ha terminato il suo incarico alla Bce, a fine 2019, le sue apparizioni pubbliche si sono diradate. Conscio che la sua eredità e la sua figura sono alquanto ingombranti, ha centellinato le apparizioni pubbliche per non dare l’impressione di voler condizionare le scelte del Governo italiano e della Bce. Nel 2020 si è affacciato sulla scena pubblica solo tre volte: scrivendo un articolo per il Financial Times a fine marzo, intervenendo al Meeting di Rimini in agosto e coordinando, con l’economista indiano Raghuram Rajan, un rapporto del Gruppo dei Trenta reso noto agli inizi di dicembre.

Concentriamoci ora solo sulle colonne del prestigioso quotidiano finanziario inglese, dove Mario Draghi ha sostenuto che i governi dovrebbero prendere in prestito ben oltre le loro attuali entrate fiscali (che rappresentano il collaterale delle emissioni dei titoli), aumentando i deficit quanto necessario. Ciò contribuirebbe a far rimanere a galla i sistemi economici e preserverebbe la capacità produttiva, che in tal modo potrebbe tornare velocemente a pieno regime una volta passata l’emergenza. Draghi, rievocando la storia della finanza di guerra nel primo conflitto mondiale, ha sostenuto in modo convincente che i bilanci dei governi europei dovrebbero assorbire lo shock economico del coronavirus («dobbiamo mobilitarci come per la guerra»). La storia finanziaria della Grande Guerra cui Draghi fa riferimento fornisce una cruciale intuizione, rilevante pure per i governi europei di oggi: coloro che si preparano rapidamente a un conflitto di durata incerta, e lo fanno centralizzando l’emissione di debito, se la caveranno meglio di quelli che non lo fanno. Gran Bretagna e Francia impostarono il loro finanziamento del debito su solide basi a lungo termine, utilizzando il loro merito di credito per attingere alle risorse esterne fornite dai risparmiatori degli Stati Uniti, sia a beneficio loro sia dei loro alleati. Al contrario, i singoli governi statali tedeschi e la parte austriaco-ungherese dell’Impero Asburgico, continuarono a emettere propri titoli al loro interno. Ciò indebolì le strutture federali cui appartenevano, contribuendo alla sconfitta e al crollo di entrambi gli imperi nel 1918.

La lezione per i governi dell’Eurozona non potrebbe essere più chiara: la creazione di uno strumento di debito comune per finanziare la lotta alla pandemia non solo salverà vite umane, ma rafforzerà la solidarietà e getterà le basi perché l’Ue possa resistere a shock futuri. Col Recovery fund in parte questa operazione è avviata ma la strada da percorrere è lunga. Fin qui l’idea di suggerire che prendere prestiti a tassi d’interessi bassi, come quelli attuali, è più conveniente che mai, è di certo vincente. Ma sarà così anche dopo la fase di emergenza? E, anche ipotizzando un contenimento degli interessi, alla fine il capitale dovrà comunque essere restituito. I governi, privi di fiammate inflazionistiche, usuali dopo guerre e rivoluzioni, saranno costretti a rimborsare l’intero valore nominale dei titoli di nuova emissione sperimentando un drammatico aumento dei debiti pubblici. Super Mario però sembra essere abbastanza rilassato al riguardo. Forse è fiducioso perché secondo lui la questione, una volta finita la crisi, si sposterà sul “consolidamento fiscale”.

Ciò che manca, secondo noi, è il ruolo che le banche centrali dovrebbero svolgere, in questa fase critica, per reprimere la speculazione finanziaria e consentire il finanziamento monetario della spesa del settore pubblico. Se le banche centrali operassero come prestatori di ultima istanza (land of last resort), la sostenibilità fiscale potrebbe rivelarsi un concetto fuorviante. L’analogia con la spesa durante la Grande Guerra è pertinente, ma dobbiamo stare attenti alle conseguenze. Dopo la seconda guerra mondiale, un regime monetario internazionale ordinato, insieme a politiche keynesiane intelligenti di gestione della domanda, hanno fornito le basi per 30 anni di prosperità crescente e inclusiva (con annessi babyboomers, oggi irripetibili visti i dati demografici, specie in Europa). Insomma, se questo è lo scenario per il periodo post-guerra al coronavirus, allora il “costi quel che costi” fiscale di Mario Draghi potrebbe non essere sufficiente questa volta.
 
Foto Ansa

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