
«Quando tornerò, sarà per impiccarti». Il diario della persecuzione di Asia Bibi

Articolo tratto dal numero di ottobre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo di seguito il primo capitolo del libro scritto da Asia Bibi insieme alla giornalista francese Anne-Isabelle Tollet, Finalmente libera! (Edizioni Terra Santa), uscito in libreria il 24 settembre.
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Non ricordo bene le date, ma ci sono giorni che non dimenticherò mai. Come quel venerdì 19 giugno 2009. Sono arrivata, prima del tramonto, al centro di detenzione di Sheikhupura, dove avrei trascorso tre anni per poi cambiare prigione come si cambia casa. Non ero ancora stata giudicata, ma per tutti ero già colpevole. Ricordo quel momento come se fosse ieri e quando chiudo gli occhi rivivo ogni istante…

Sento bruciore ai polsi, fatico a respirare. Il collo che la mia ultimogenita aveva l’abitudine di avvolgere con le sue braccine è stretto da un collare di ferro che la guardia può serrare a suo piacimento con un enorme dado. Una lunga catena che striscia sul pavimento sudicio collega la mia gola alla mano ammanettata del secondino, che mi tira come un cane al guinzaglio. Avverto dentro una paura lancinante che mi trascina verso le tenebre profonde. Un terrore che non mi lascerà mai. In quel preciso momento avrei voluto abbandonare quel mondo così duro per me.
Nei sandali fabbricati dal ciabattino gentile del mio villaggio, le mie caviglie cinte da manette di cuoio sono unite da una catena stretta e tesa. Rischio di cadere a ogni passo. Un po’ in piedi, un po’ chinata, fatico ad andare avanti. Mi sento anche a disagio per i capelli sciolti: ho perso il foulard quando mi hanno buttata come un sacco di patate fuori dal furgone della polizia che mi ha portata in prigione. Mi sento nuda e messa a nudo. I capelli mi nascondono una parte del viso coperto di sporco e sudore e anche se in quell’ambiente non stona, ho l’aria di una prostituta. Faccio smorfie di dolore, ma l’uomo ignora la mia sofferenza, visto che non si preoccupa di voltarsi e guardarmi, per paura di “sporcarsi”. Improvvisamente accelera e mi strattona. Cado lunga distesa, ma lui non rallenta. Mi sento soffocare e per non essere strangolata cerco di rialzarmi in fretta per riuscire a seguirlo.
«A morte la blasfema!»
Sento in lontananza il rumore di gavette che battono le une contro le altre. Guardo sui due lati di questo corridoio interminabile, ma vedo soltanto porte di legno chiuse. Sussulto al grido di una donna: «A morte!». Altre voci femminili continuano: «All’impiccagione!». «Impiccata! Impiccata!». Capisco che sono le prigioniere ammassate come bestie, che urlano tutto l’odio che hanno dentro. Impietrita dalla paura e per sfuggire a quelle urla funeste pronuncio mormorii sommessi a labbra chiuse per tentare di coprire le loro voci, ma invano. In quel corridoio livido, fisso un moscone posato su un neon sudicio.
A ondate successive le detenute danno colpi in cadenza: «Alla corda!», clac, clac… «Alla corda!», clac, clac…
La guardia con la camicia azzurra si ferma di colpo davanti all’ultima cella della fila. Si volta per la prima volta, i suoi occhi sporgenti mi guardano con aria soddisfatta. Sotto il berretto blu è grondante di sudore e le sue ascelle trasudano formando ampie aureole umide. Tira fuori dalla tasca un vecchio straccio con un’espressione sadica sul viso.
Si fanno sentire altre grida: «A morte la blasfema! Blasfema, blasfema, a morte!».
«Chiudete il becco – urla il secondino – chiudete il becco, buone donne!».
La mia nuova “casa”
Tutto tace, mentre io vomito silenzio. L’uomo mi svita il collare di ferro con un panno disgustosamente sporco, facendo attenzione a non entrare in nessun modo in contatto con i miei capelli o la mia pelle. Sono sfinita dal dolore, abbasso lo sguardo, poi metto la mano sul collo pieno di ematomi.
Con aria schifata mi urla: «Sei peggio di un porco! Sono costretto a toccare la tua carogna e insudiciarmi, ma non sarà per molto, Allahu akbar!».
Con un colpo secco mi tira un calcio sulla rotula. Crollo a terra. (Qualche tempo dopo verrò a sapere che l’aguzzino con cui avrei trascorso tre anni si chiamava Khalil). L’uomo si china verso di me per liberarmi i piedi. Con le mani sul ginocchio ferito, soffro, taccio e lo guardo impaurita. Mentre allenta le manette dalle caviglie sogghigna: «La pena di morte! Sì, a morte, per aver insultato il nostro profeta! Chi credi di essere, lurida cagna?». Silenzio assoluto. Mi rialzo con difficoltà su un piede mentre lui apre la porta cigolante di quella che diventerà la mia casa. Ridendo allegramente, mi dice: «Hai sentito le tue compagne? La prossima volta che verrò in questa cella sarà per appenderti a una corda, inshallah!».
Dopo aver raschiato gli stivali su di me, mi spinge dentro. La porta si richiude al suono della sua risata beffarda. Abbandonata sul pavimento di terra di questa prigione senza speranza, fisso l’uscita pensando che forse questa prova è mandata da Dio.
Foto Ansa
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