
Perché vale la pena leggere i giornali (soprattutto Tempi)

Articolo tratto dal numero di novembre di Tempi. Attenzione, di norma, gli articoli del mensile sono riservati agli abbonati. Per abbonarsi a Tempi, clicca qui.
Tutte le mattine, dopo le lodi – preghiera mattutina del breviario – leggo il giornale. Anche questo gesto ha una sua ritualità. Come diceva Hegel: «La preghiera del mattino dell’uomo moderno è la lettura del giornale. Ci permette di situarci quotidianamente nel nostro mondo storico». Appunto, apre alla considerazione di quel che succede attorno; addirittura, per chi usi un computer, lo fa vedere attraverso l’accesso ai numerosi video che pure compongono i quotidiani. A me la lettura del giornale piace, perché sveglia. Secondo un’indagine Istat dell’inizio 2018, la lettura dei giornali è un’abitudine un po’ da vecchi: «solo il 12% circa dei ragazzi fino ai 17 anni ne legge almeno uno in una settimana e si sale al 35% circa tra i 18-24enni. I lettori di quotidiani diventano quasi la metà della popolazione dei 25-44enni, mentre oltrepassano la metà solo a partire dai 45 anni, raggiungendo la quota più alta tra le persone di 60-64 anni (57,2%)». Dopo quest’ultima età la percentuale di lettori non è riportata. Si vede che questi lettori valgono meno, cominciano a sragionare a conforto della proposta di Grillo di togliere loro il voto.
Secondo un’altra recente indagine dell’Audipress su numeri assoluti, circa 16 milioni di italiani leggono, su carta o digitale, un quotidiano tutti i giorni, pressappoco il 30 per cento della popolazione dai 14 anni in su, il 31 e rotti percento dei votanti. In dieci anni l’abitudine è calata di un 5 per cento. Il confronto internazionale per noi è impietoso, soprattutto per quanto riguarda l’utilizzo di internet per leggere notizie: tra i 28 paesi della Ue nel 2016 eravamo ultimi, 37 per cento, insieme alla Romania; la Finlandia era prima con l’84, la media europea era il 54. In compenso 9 italiani su 10, soprattutto giovanissimi e anziani, guardano la televisione e 6 su 10, con prevalenza di giovani, usano internet, trascorrendo in media 35 ore alla settimana davanti a TV e contenuti video.
Sono anche io un essere umano
Io ho 71 anni e, per quanto non più conteggiato da Istat, persisto nella lettura del giornale. Ho cominciato al liceo e ho reso costante l’abitudine andando all’università. Passavo dall’edicola, prendevo il giornale e quindi il tram “diretto” per Milano delle 7.20, dove per 50 minuti mi isolavo dal mondo circostante per cercare quello “generale” sul quotidiano. All’inizio “bevevo” editoriali e commenti; la cronaca mi interessava meno. Poi, con l’ingresso in Cl ho cominciato a essere critico e spesso arrabbiato: parlavano quasi sempre male di noi, in particolare i cosiddetti “giornaloni”, non solo quelli orientati a sinistra come Repubblica, ma anche quelli della cosiddetta borghesia, come il Corriere. I giornali e giornaletti di sinistra più marcata, in particolare i settimanali Espresso e Panorama, erano ferocemente contro di noi e ne dicevano di tutti i colori. Eravamo descritti come un gruppo chiuso, paramafioso, dedito al potere della politica e al denaro delle opere, con una cultura clericale orientata a destra, molto a destra: clerico-fascisti era una definizione standard che ci applicavano. Le conseguenze sulla nostra scarsa popolarità negli ambienti di studio e di lavoro non erano da poco, non solo per l’opinione generalmente negativa nei nostri confronti, ma anche per l’incolumità facilmente a rischio. Io, insegnando all’università ed essendo abbastanza noto come ciellino, sentivo su di me uno sguardo sospettoso che mi chiedeva di dimostrare che non venivo dall’inquisizione e che in fondo anch’io ero umano.
La “nota origine” di Marta Cartabia
Ancora adesso la presenza del ciellino provoca qualche brivido. In un ritratto-lenzuolo fatto dal Foglio della professoressa Marta Cartabia, vicepresidente della Corte Costituzionale, si dice che la sua nota origine ciellina, nonostante la nomina e il sostegno del presidente Napolitano, aveva suscitato perplessità a riguardo del suo atteggiamento sui “diritti” – quelli “nuovi”, gender eutanasia e simili. Poi tutto regolare, tanto che la citata professoressa, ormai da giornaletti e giornaloni, ogniqualvolta si liberi una carica importante – dal presidente del Consiglio in su – è candidata, anche se per un tempo limitato, almeno per il momento.
Bene, essendo io di Cl e conoscendo moltissimi dei miei correligionari, sapevo che quello che i giornali dicevano su di noi non era vero e, se non era vero, era falso. Quindi i giornali dicevano il falso e se lo dicevano per ignoranza invece che per cattiveria erano ancora più inescusabili, perché non trasmettevano notizie, ma amplificavano calunnie, senza alcuna verifica. Adesso la musica su Cl è cambiata; è più dolce. Ovvio chiedersi se siano cambiati i giornali o noi. La risposta è, come succede di solito, entrambi. Negli ultimi dieci anni i pregressi furori ideologici si sono un po’ calmati e noi siamo meno “provocatori”, interveniamo meno e siamo più soffici. Tuttavia questo, di per sé, non elimina la falsità, la attutisce, rendendola più accettabile e quindi più pervasiva.
Mi ha colpito molto, leggendo le cronache e i commenti cosiddetti laici al Meeting di Rimini, il tono benevolo e in qualche caso addirittura ammirato di quanto la manifestazione fosse occasione di incontro, dialogo e amicizia, finalmente non più prodotti da un comune schieramento politico, come avveniva in passato. Quindi, questi ottimi atteggiamenti sarebbero prodotti da che? Spunterebbero come funghi da condizioni ambientali particolarmente favorevoli e quali? Non si dice. Si dice che è meglio adesso di prima perché non c’è più la politica e poi ci si lancia in commenti sul valore politico della non politica, perché alla fine l’unico criterio di giudizio è politico. Di Cristo, dell’esperienza cristiana all’origine del Meeting, di come e perché questa possa esitare in incontro, dialogo e amicizia e pertanto in maggiore umanità non si parla. Anzi alcuni teorizzano che non se ne deve parlare perché troppo identitario, tale da sconvolgere l’interlocutore diverso. È un falso per omissione.
Allarmismo da bar
Dicevo del criterio politico con cui i giornali leggono gli avvenimenti: è praticamente l’unico. Ognuno tira dalla sua parte, evitando, soprattutto nei grandi giornali, di dire da che parte sta, anche se però si capisce: per lo più a sinistra, secondo l’andamento diffuso nell’intellettualità italica e non solo. Comunque, di sinistra o destra, dato il comune e prevalente criterio politico di interpretazione dei fatti, il risultato è piuttosto monotono e scontato. Per chi legga quotidianamente i giornali, titolo e autore dei pezzi sono indicatori di dove questi vanno a parare. Tant’è che, almeno in me, ma non credo solo in me, si realizza una tendenza a fermarsi al titolo o alle prime righe e a leggere di più gli autori con cui si è d’accordo – il che forse non è giusto, ma è più piacevole. Proprio sul Corriere di oggi (31 ottobre) un articolo di Andrea Ducci, a commento di una proposta di legge sull’editoria, riferisce di «una crisi che dal 2007 a oggi ha visto diminuire di oltre il 60% il numero di copie giornalmente vendute di quotidiani»; da 5,5 milioni di copie di dodici anni fa ai due milioni di oggi. Le edizioni digitali, come abbiamo visto, non rimediano molto, così come non sembrano aiutare i titoli sempre più gridati e l’allarmismo da bar che caratterizza notizie anche non straordinarie.
Mi ha colpito un recente titolo sulla edizione milanese del Corriere. Ripeto a senso, ma era così: temporali con tuoni e fulmini in ottobre; è normale? Lo chiedono a noi! E se non fosse normale, come l’articolo suggerisce, cosa dobbiamo fare: protestare, prepararci alla fine del mondo? Nei commenti degli esperti il calo delle vendite dei giornali è attribuito a vari fattori, tra cui l’informazione televisiva, l’accesso alle notizie attraverso internet, il frastuono mediatico in cui siamo immersi anche senza leggere la stampa. Un ruolo importante ha giocato anche la crisi economica che ha reso più difficile sopravvivenza e diffusione di giornali attraverso la riduzione degli investimenti pubblicitari, degli abbonamenti e degli acquisti in edicola. È stato tuttavia osservato che «molte testate sono diventate nel tempo spudoratamente di parte, al punto da manipolare l’informazione, vuoi sottolineando ossessivamente certe notizie, vuoi letteralmente omettendone altre». Anche a me sembra così, magari non come unica ragione, ma come una delle ragioni più importanti.
La tentazione degli scribi
Non bisogna allora leggere più i giornali? Il contrario. I giornali vanno letti perché sono lo specchio del mondo in cui viviamo. Non credo che i giornalisti siano una categoria professionale particolarmente malvagia. Sono buoni e malvagi come avviene in tutte le professioni. Certo non sono, come amano retoricamente dipingersi, un esercito di idealisti, duri e puri, dedito alla battaglia in favore della verità, perché tutti sappiano contro la menzogna e il malaffare. Sono soggetti a influenze potenti della politica, della economia e anche della pubblica opinione, che, a volte, invece di essere condizionata da loro, li condiziona. Subiscono la tentazione degli scribi, che nel Vangelo sono spesso accomunati ai farisei, come difensori dello status quo, di quello che si sa già, contro la novità che li sfida. È il mondo in cui viviamo, anche noi soggetti alle stesse tentazioni e negazioni.
I giornali, come tutto ciò che accade, dobbiamo leggerli in compagnia; quella compagnia, che pur con approssimazione e sbagli, ci ha mostrato e aiutato a scoprire ciò che vale, quello per cui siamo fatti e da cui ricaviamo un’umanità più piena di giudizio e di speranza. In poche parole, bisogna leggere i giornali, fidandosi più degli amici che di loro. Amici, che a loro volta, siano sostenuti e verificati in una sequela ideale più grande di noi e di loro. Non è un caso che cristianamente parlando la persona sia invitata a partecipare a una comunità, inserita in una parrocchia, in una diocesi e nella Chiesa universale. Teniamo conto infine che ci sono giornali scritti da amici per dirci cose vere che non sappiamo o confermarci in quelle giuste che sappiamo. Tempi, per esempio.
Foto Ansa
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