Repubblica chiede ai giudici più «sensibilità culturale extragiudiziaria» (come, prego?)

Di Pietro Piccinini
16 Aprile 2019
Un ampio servizio del quotidiano sulle "sentenze delle donne che offendono le donne" rivela molto, moltissimo di un certo uso distorto della giustizia

Leggere Liana Milella, penna regina di Repubblica per la cronaca giudiziaria, è sempre istruttivo. Offre regolarmente un’idea abbastanza chiara delle opinioni e degli orientamenti che vanno per la maggiore nei palazzi di giustizia del nostro paese su alcuni temi cruciali, dal rapporto dei magistrati con il potere politico alle varie sentenze “creative” in ambito civile e sociale. In più, la giornalista di tanto in tanto lascia anche trapelare i retropensieri, i calcoli di bottega e le convinzioni ideologiche spesso inconfessabili che animano tante campagne politico-giudiziarie di uno dei giornali più capaci di “fare egemonia culturale” in Italia. E a volte lo fa con una franchezza che se non fosse ingenuità potrebbe sembrare sfacciataggine.

Prendete per esempio l’edizione di Repubblica di ieri, con quella interessante paginata su “Le sentenze delle donne che offendono le donne” firmata appunto da Liana Milella. L’argomento, sicuramente importante, è quello delle “firme femminili su sentenze che scusano stupratori e assassini”, come semplificava un sommario del quotidiano. Esempio di partenza, il caso dei tre giudici donne della Corte d’appello di Ancora che nel 2017 hanno assolto due presunti stupratori condannati in primo grado, scrivendo nella sentenza che la loro presunta vittima (definita per altro dalle toghe «scaltra peruviana») era troppo «mascolina» per essere davvero desiderabile. Il 10 marzo la Corte di cassazione ha annullato il verdetto e ordinato di rifare il processo. Di qui il succo del servizio di Repubblica:

«A una settimana dal via libera al “Codice rosso” (pene più dure per le violenze sulle donne), il caso di Ancona riapre la pagina delle magistrate “morbide” e pronte agli sconti di pena che hanno rimesso in pista il delitto d’onore anche per le parole usate».

CURIOSE ATTENUANTI E STRANI ACCENTI

Si capirà poi che in realtà nessuno ha «rimesso in pista il delitto d’onore» tout court, ma qualcosa di notevole effettivamente c’è, a giudicare dagli altri due esempi citati, entrambi casi di pene dimezzate, da parte anche di giudici donne, a uomini che avevano ucciso le rispettive compagne: a uno, ricorda Repubblica, è stata riconosciuta come attenuante la «”tempesta emotiva” scatenata dalla gelosia», l’altro ha avuto lo sconto perché «”illuso e disilluso” dalla mancata promessa [della moglie] di lasciare l’amante».

L’argomento dunque è serio, come è seria la violenza sulle donne, e merita sicuramente approfondimento. Tuttavia fra le righe della pagina di Liana Milella qualcosa comincia quasi subito a non tornare. Perché spostare tutto l’accento sulle parole usate dai giudici donne «che offendono le donne», e non invece sugli eventuali errori giudiziari, se di errori giudiziari si tratta?

«Dice Gaetano Silvestri, l’ex presidente della Consulta ora al vertice della Scuola della magistratura di Scandicci: “Il linguaggio non è mai neutrale, ma risente della stratificazione dei pregiudizi che derivano da un’oppressione secolare delle donne, quindi penetra pure nelle sentenze. Una donna, in quanto donna, non è immune da questa cultura. Nei corsi sul linguaggio che teniamo alla Scuola raccomandiamo di evitare di trasmettere i pregiudizi. Ma se chi scrive è legato a vecchie concezioni sessiste e maschiliste, uomo o donna che sia, purtroppo non c’è niente da fare”».

LEGGI DURE, TOGHE «BUONISTE»

Si parla insomma di «pregiudizi» culturali, «vecchie concezioni sessiste e maschiliste», ma il metro della cronaca giudiziaria non dovrebbe essere le leggi e la correttezza delle sentenze in base ad esse?

Esatto, le leggi e le sentenze. Scrive la Milella in riferimento ai due casi citati di assassinio con pena ridotta, avvenuti a Bologna e a Genova:

«Due finali che oggi non sarebbero più possibili, perché il 3 aprile il Senato ha cambiato la legge sul rito abbreviato. Con un omicidio da ergastolo – come a Bologna e Genova – non lo si potrà più chiedere».

Adesso una riforma dovrebbe aver messo in chiaro le cose. Qual è quindi la preoccupazione ulteriore di Repubblica? Eccola:

«Resta però la singolarità di sentenze sulle donne scritte da donne. Che succede tra i giudici? Diventano buonisti proprio mentre il governo di centrodestra inasprisce le pene per la violenza?».

TROPPI «TECNICISMI»

A parte il fatto che ora i giudici, come ha scritto la stessa Milella due righe sopra, se vorranno rispettare le leggi non potranno più fare i «buonisti», comunque quel che non torna nell’impostazione di Repubblica diventa evidente subito dopo, quando la giornalista lascia che a tirare le fila del ragionamento sia Fabio Roia, «presidente della Sezione per le misure di prevenzione di Milano, considerato un esperto del contrasto alla violenza di genere». Dice Roia:

«Oggi le sentenze di avanguardia e più coraggiose su questi temi arrivano da una Cassazione ringiovanita, e non dai giudici di merito. In passato le sentenze evolutive erano scritte in primo e in secondo grado. Oggi queste tendono al conformismo, e le censure arrivano dalla Suprema corte. I giudici di primo e secondo grado hanno meno sensibilità culturale extragiudiziaria sui temi civili, e sono più attenti ai tecnicismi».

Ora si capisce perché sembra tutto un po’ stonato? Che cosa sono, di grazia, le «sentenze evolutive»? Di quale istituto giuridico fanno parte? E cosa significa esattamente che i giudici di primo e secondo grado dovrebbero avere più «sensibilità culturale extragiudiziaria»?

OCCHIO AI «CHIAROSCURI»

Tra l’altro c’è un dettaglio non secondario sulla vicenda della «scaltra peruviana» troppo «mascolina» per essere violentata: l’assoluzione dei due presunti stupratori potrebbe non essere sbagliata. È sempre Liana Milella a precisarlo nello stesso articolo:

«Anche sul giudizio controverso di Ancona una donna difende le donne. È Maria Teresa Cameli, oggi procuratore a Forlì, nel 2017 sostituto procuratore generale d’udienza: “Era un ottimo collegio, né sprovveduto, né poco attento, che ha fatto tantissimi processi per violenza sessuale, sempre con condanne giuste, ma che si è pronunciato sulla non credibilità della parte offesa, perché era una situazione con dei chiaroscuri, che non collimava con i fatti. Certo, nella sentenza ci sono due frasi infelici, ma l’esito assolutorio sarebbe stato uguale perché la Corte non ha creduto alla versione della ragazza”».

A maggior ragione ritornano le domande di cui sopra. I giudici devono giudicare in base ai fatti e alle leggi o in base a una non meglio precisata «sensibilità culturale extragiudiziaria»? Ferma restando la gravità del tema e l’urgenza di perseguire chi fa violenza sulle donne o peggio le uccide, non pare proprio saggio invitare più o meno velatamente la magistratura ad amministrare la giustizia in base ai sentimenti della gente. Anche perché poi ovviamente quei sentimenti, più che della gente, sono quelli dei giornali.

FATTI, NON PREDICHE

La morale della storia la tira fuori, alla fine del pezzo, Riccardo Fuzio, procuratore generale della Cassazione, il quale promette a Repubblica che prenderà in esame questi casi «per valutare eventuali anomalie». Spiega Fuzio:

«Nelle sentenze bisogna occuparsi di fatti e non dare giudizi morali o estetici: farlo potrebbe costituire un illecito disciplinare, in quanto dev’essere rispettata la dignità delle persone e la correttezza verso le parti».

Perfetto. Vedremo – speriamo presto – se i casi raccontati costituiscono in effetti «illeciti disciplinari» o meno. Ma l’ammonimento a «non dare nelle sentenze giudizi morali o estetici» risulta abbastanza sorprendente a commento di un articolo che predica la necessità per i giudici di usare più «sensibilità culturale extragiudiziaria».

E la sorpresa raddoppia, se si legge anche l’intervista pubblicata in coda, stessa pagina di Repubblica, taglio basso. La firma è sempre quella di Liana Milella, e a parlare è «la magistrata» Ezia Maccora, «presidente aggiunto dei gip di Milano e già gip a Bergamo del caso Yara». Dice la magistrata:

«La funzione della sentenza è rendere manifesto il ragionamento del giudice non solo alle parti, veicolando anche messaggi alla società. In molti casi, le decisioni contribuiscono a orientare lo sviluppo di positivi processi culturali del Paese (si pensi alle decisioni sul fine vita e sulle stepchild adoption), ma possono anche ostacolarli o rallentarli: ecco perché occorre prestare particolare attenzione a ciò che si scrive, i destinatari e la collettività devono trovarvi ragioni di convincimento».

Ricapitoliamo. Repubblica dice ai giudici che devono stare attenti alle parole che usano e «occuparsi di fatti e non dare giudizi morali o estetici» (Fuzio). Poi traduce il concetto spiegando che ciò significa «orientare lo sviluppo di positivi processi culturali del Paese (si pensi alle decisioni sul fine vita e sulle stepchild adoption)» (Maccora). Scusate signori giudici (e signori giornalisti), ma chi vi ha chiesto di farlo? Siete magistrati o siete preti?

* * *

Ps. Ottimo tra l’altro l’editoriale di Sebastiano Messina apparso sempre ieri e sempre su Repubblica in merito all’arresto della preside di un istituto professionale di Imperia, “beccata”, pare, a usare l’automobile della scuola per scopi personali. Accusa di peculato, non condanna, eppure la donna è in carcere. Ottima anche la citazione, da parte di Messina e di Repubblica, di Tangentopoli e del fatto che ora «rischiamo di passare da un eccesso all’altro». Prima tutti corrotti, ora tutti in galera. Giustissima anche l’osservazione che «la politica sta creando un clima da stadio intorno ai tribunali». In quanto garantisti incalliti, non possiamo che sottoscrivere. E complimenti a Repubblica: trent’anni dopo Tangentopoli, ora che c’è un governo nemico, sembra aver capito che è pericoloso piegare la giustizia alla «sensibilità culturale extragiudiziaria» della propria curva. O no?

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