Andi Suparman, un “folle di Dio” che libera i matti dalle catene

Di Leone Grotti
27 Febbraio 2019
La malattia, il sogno e il voto di dedicare la propria vita ai bisognosi. Storia del camilliano indonesiano che libera i malati mentali dai ceppi e costruisce per loro rifugi in cui vivere dignitosamente senza nuocere a nessuno.

Articolo tratto dal numero di Tempi di febbraio 2019.

Petrus Silvester ha passato gli ultimi tredici anni della sua vita con la caviglia destra incatenata a un assito di legno, all’interno di una baracca pericolante fatta di canne di bambù, senza pareti e con un tetto di fortuna appena abbozzato per ripararlo dalle intemperie. Vestito con una maglietta, senza pantaloni o mutande, poteva soltanto stendersi la notte oppure stare seduto di giorno. Il 37enne con problemi mentali conduceva tutta la sua vita su quel tavolaccio: mangiava, beveva, urinava, defecava, si lavava e dormiva. Con tutta probabilità sarebbe anche morto in quella baracca se la madre, anziana e vedova, l’anno scorso non si fosse presentata alle prime ore dell’alba di un giorno di marzo alle porte del seminario camilliano di Maumere, città principale di Flores, una delle oltre 17 mila isole che compongono l’arcipelago dell’Indonesia. La donna piangeva e gridava, implorando l’aiuto dei religiosi. Avrebbe voluto liberare il figlio più di ogni altra cosa ma come il resto della famiglia era spaventata che Petrus potesse fare del male a qualcuno. Da mesi girava voce che i camilliani aiutavano i malati mentali e quando quella notizia è giunta alle sue orecchie di madre, si è precipitata al seminario con le mani giunte. 

Il rettore, padre Andi Suparman, l’ha seguita fino alla baracca dove giaceva il figlio, che alla vista del prete cominciò a piangere: «Padre, ti prego, liberami dalle catene». Commosso per le lacrime della madre e del figlio, padre Andi fece del suo meglio per costruire un alloggio dignitoso a quell’uomo, in modo tale che potesse vivere libero dalle catene senza però mettere a repentaglio la vita dei familiari. Per reperire i fondi necessari tagliò il bilancio previsto per i pasti dei seminaristi e quando la casetta fu finita organizzò una piccola cerimonia per benedirla e pregare per la guarigione dell’uomo. «La notizia, chissà come, arrivò alle orecchie del governo e così alla celebrazione parteciparono moltissime persone. Io non volevo certo farmi pubblicità, ma non potevo impedire loro di parlare dell’accaduto. Da quel giorno, la notizia è volata di bocca in bocca, diffondendosi in tutta la regione, e ora abbiamo più richieste di quante possiamo gestirne. Tutti vogliono liberare i propri familiari dalle catene».

Sceglie questo esempio padre Andi, sacerdote indonesiano di 39 anni, per raccontare a Tempi come si è diffusa l’opera straordinaria dei camilliani tra i malati mentali dell’Indonesia. Nonostante una legge del 1977 vieti il pasung, cioè l’incatenamento dei malati, la pratica è ancora molto diffusa e oggi almeno 18.800 persone si trovano in questa condizione in Indonesia. Nel distretto di Maumere vivono 500 malati, 50 dei quali incatenati. «Non è che la gente sia insensibile o disumana, ma bisogna capire la realtà locale», continua il religioso. Esistono molti ospedali per malati mentali nel paese, ma sono dislocati soprattutto nelle grandi città. «L’Indonesia è un arcipelago e la distanza tra le isole è molto grande. Il viaggio è costoso e gli abitanti dei villaggi sono poveri: pochi se lo possono permettere. Così assistere i malati è difficile: nei centri sanitari in provincia spesso non si trovano le medicine necessarie oppure non ci sono medici specializzati in psichiatria. Per questo le famiglie sono obbligate a incatenare i malati, per evitare che facciano del male a se stessi e agli altri. Sono consapevoli che non è il modo migliore di trattarli, ma non hanno altra scelta».

Le truffe e i demoni

Oltre alla povertà e alle carenze infrastrutturali e mediche del paese, ci sono anche altri problemi. Proprio come avviene in Africa, spiega padre Andi, «anche qui la gente crede spesso che i problemi mentali siano provocati da demoni e spiriti malvagi. Molte famiglie si rivolgono agli sciamani o a leader religiosi tradizionali, che si fanno pagare profumatamente per compiere i loro riti senza risolvere nulla. Alla fine, le catene sono il metodo più economico ed efficace».

I seminaristi camilliani di Maumere si prendono cura dei malati mentali dal 2016. Nel quartiere dove sorge il seminario viveva un uomo incatenato e i religiosi pensarono di aiutarlo costruendo per lui un rifugio vicino alla casa dei familiari, sicuro ma confortevole, per ospitarlo. Un secondo malato venne aiutato nel 2017, prima che il caso di Petrus rendesse i camilliani “famosi” in tutto il distretto. 

Padre Andi segue un metodo «che si è dimostrato efficace nel tempo, in grado di aiutare allo stesso tempo i malati, i familiari e la società». Prima di tutto approccia i familiari del malato, cercando di convincerli a liberare il paziente e spiegando quanto sia importante il loro lavoro per curarlo. Se accettano, viene costruito di fianco alla loro casa un rifugio in cemento, acciaio, canne di bambù e tetto in lamiera, con un pavimento piastrellato e dotato di letto, bagno, doccia e tutto l’occorrente per preparare da mangiare. «La sicurezza è fondamentale, perché i malati molto spesso sono violenti», spiega il religioso. «Così invece possono vivere in un luogo igienico, facile da pulire, liberi dalle catene, al riparo da insetti e intemperie. Possono lavarsi e mangiare con comodo, ricevere visite, riposarsi, leggere, ascoltare musica e pregare. Il rifugio costa solo 1.500 euro e garantisce la sicurezza di tutti quando i malati hanno una crisi. In questo modo non solo le famiglie possono prendersi cura dei propri cari ma anche i vicini si sentono protetti, con reciproco giovamento. I malati, infatti, si sentono finalmente accettati e possono ricevere l’assistenza spirituale, medica e affettiva di cui hanno bisogno».

L’uomo che camminava sui banani

Nonostante la carenza di fondi, i camilliani sono riusciti a costruire 18 rifugi per altrettanti pazienti «e tutti, una volta liberati dalle catene e dallo stress della prigionia, ne hanno tratto giovamento, calmandosi e cominciando un percorso di riabilitazione. Tutti», continua padre Andi, «ricevono assistenza spirituale e visite dai nostri seminaristi perché la preghiera e la fede, oltre alle medicine che ci procuriamo in collaborazione con il governo, sono fondamentali in questo cammino. Anche i parenti sono felici perché vedono i familiari migliorare e avere meno accessi di rabbia e violenza con il passare del tempo».

Non tutti i casi però sono uguali e alcuni sono molto complessi. «Abbiamo un paziente, malato da dieci anni, che è stato incatenato dopo avere bruciato la sua stessa casa. Poi ha minacciato di dare fuoco anche a quelle dei vicini e così è stato legato. Abbiamo costruito un rifugio per lui e cominciato a procurargli le medicine, ma i vicini non ci hanno permesso di liberarlo dalle catene: hanno troppa paura che possa scappare e bruciare il villaggio. Purtroppo c’è bisogno di tempo e di un lungo lavoro per convincerli».

Il caso più difficile che padre Andi ha dovuto affrontare è quello di un uomo «dalla grande forza fisica», che ha manifestato una forma di schizofrenia mentre si trovava lontano da casa. Riportato nel villaggio di origine «a forza da quattro militari, è stato incatenato. I vicini sostenevano che avesse poteri satanici, che gli avrebbero permesso in passato di camminare sulle foglie dei banani. Per 19 anni è rimasto con i ceppi alle caviglie, senza lavarsi né tagliarsi i capelli, nutrendosi esclusivamente di banane, perché temeva che i familiari volessero avvelenarlo. Odiava tutti e minacciava continuamente di uccidere i suoi fratelli. La gente aveva paura e per questo nessuno del suo villaggio voleva avvicinarlo. Quando ci siamo proposti di aiutarlo, i contadini hanno provato in ogni modo a dissuaderci parlandoci dei suoi poteri satanici. Noi però non ci siamo arresi. Gli abbiamo costruito il rifugio e cominciato a curarlo con le medicine. Dopo averlo liberato, gli abitanti del villaggio sono venuti a vedere, rimanendo stupiti che si fosse finalmente calmato. Dopo appena tre giorni senza ceppi, ha chiesto per la prima volta di mangiare del riso, ha smesso di minacciare i familiari e ha ripreso a esprimersi in modo chiaro. Ha voluto farsi un bagno, cambiarsi i vestiti e mi ha chiesto di tagliargli i capelli. Tutte cose che non aveva mai fatto per 19 anni».

Il ministero tra i malati mentali di padre Andi è «duro e faticoso, prosciuga le mie energie psicologiche e fisiche». Oltre a presiedere con una squadra di seminaristi alle visite, ai colloqui con le famiglie e alla costruzione dei rifugi, infatti, il religioso è rettore del seminario e formatore dei novizi, ma insegna anche Bioetica alla scuola cattolica di filosofia e teologia. Nonostante questo va avanti: la sua tenacia trae continuamente nuova linfa dalla preghiera, ma anche dal suo passato. Nato in una famiglia cattolica, terzo di sei fratelli, «da piccolo sognavo di diventare sacerdote. Ma poi quel desiderio è svanito, rimpiazzato dalla volontà di fare il medico per guadagnare bene e condurre una vita agiata». 

«Voglio liberare tutti»

Nel 1997, a 18 anni, «mi ammalai gravemente, persi peso e pensai di essere prossimo alla morte, nonostante le cure. Così pregai una novena alla Vergine Maria e al Sacro Cuore di Gesù, recitando quotidianamente il rosario. Feci un voto: se Gesù mi avesse guarito, sarei entrato in seminario e mi sarei dedicato alla cura dei malati. Dopo cinque mesi di preghiera vidi in sogno la Madonna: le dissi che stavo per morire. Lei mi abbracciò e mi disse: “Vieni”. Lungo la strada, vidi una mano ricoperta da una veste rossa, simile alla casula di un prete. Quando mi girai, non riuscivo a vedere il corpo dell’uomo ma solo la mano. “Chi è?”, chiesi e la Madonna mi rispose: “È il tuo Signore”. Quando mi svegliai, capii che era un sogno, ma mi sentivo meglio e tre settimane dopo il medico mi annunciò che ero guarito. Dio aveva risposto alle mie preghiere e io ho mantenuto la mia promessa: sono entrato in seminario. Quando due camilliani visitarono la mia classe, capii che quella era la strada preparata da Dio per me».

Padre Andi è stato ordinato sacerdote nel 2010 e non ha nessuna intenzione di abbandonare il suo speciale ministero. «Come Dio mi ha aiutato, io ora voglio portare la grazia di Dio agli altri malati. Questo è ciò che mi dà gioia e mi fa andare avanti, anche quando incontro delle difficoltà. Quando poi vedo i pazienti che migliorano, capisco che la strada è giusta e proseguo con fede e speranza. I nostri mezzi sono pochi ma vogliamo liberare tutti dalle catene».

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