Cinquanta sfumature di nero

Di Francesco Benati
28 Ottobre 2018
Insegnare italiano agli immigrati, conoscerli, parlarci, capirli. Chi sono? Cosa vogliono? Viaggio oltre il cancello dei centri d’accoglienza: l’ozio, il telefonino tuttofare e il «diritto alla donna» (se la ragazza è brutta, le mucche muoiono)

Articolo tratto dal numero di Tempi di ottobre

La mia escursione nella realtà – una realtà italiana in tumultuoso divenire, quella odierna e massiccia della gestione dei flussi migratori – è iniziata un po’ per caso. Il caso ha voluto, cioè, che alcuni amici abbiano cominciato a prendere a cuore una specifica situazione di accoglienza nella zona, invitando anche me a prenderne visione. Il caso stesso si è poi presentato proprio nel momento in cui, fresco di conseguita abilitazione all’insegnamento secondario, attendevo con molta calma di essere chiamato a ricoprire il primo incarico di supplenza. Dopo un breve scambio di inviti, ipotesi e proposte, sfruttando la triangolazione con gli amministratori locali, mi sono scoperto nei panni dell’insegnante di italiano; ho iniziato cioè a collaborare in tale veste con i centri di accoglienza temporanea dislocati in vari comuni della Bassa Romagna. L’immersione totale nella realtà è durata circa un anno, dall’autunno del 2015 all’estate del 2016. Nel momento di coinvolgimento massimo i centri interessati sono arrivati a essere quattro, per un totale di circa cinquanta studenti; gestiti da due entità associative separate e indipendenti. E anche piuttosto diverse; una era infatti un’associazione chiamata “Senegalesi Insieme”, avente in forza stabile la sola persona del presidente, Aliou, di professione operaio, in Italia da diversi decenni. L’altro soggetto, con il quale ho iniziato a lavorare alcuni mesi più tardi, era il nucleo locale della Protezione civile, che manteneva come attività principale l’addestramento delle unità di soccorso canino – circostanza che peraltro avrebbe creato qualche piccolo problema di convivenza. Queste informazioni erano già un segnale della fragilità del “sistema accoglienza” di fronte all’urto travolgente con la realtà della migrazione; a cui il sistema reagiva aprendosi ai soggetti privati più disparati purché rispondenti ai requisiti minimi. Uno di questi requisiti era proprio la capacità di erogare un servizio di insegnamento della lingua italiana agli assistiti.

Priorità esistenziali

Chiamiamoli assistiti, quindi; non ancora né forse mai «rifugiati», in attesa del riconoscimento di uno status che ha il potere di concretizzare il miraggio dei documenti: permesso di soggiorno, certificato di residenza, carta di identità. Nella scala delle priorità esistenziali i documenti (les papiers, the papers) stanno in cima, subito prima di soldi e lavoro. Nei centri di accoglienza si mangia, si dorme, si guarda la televisione, c’è chi fa ginnastica, chi prega – per i musulmani un applicazione del telefono sostituisce il richiamo del muezzin. Si resta aggrappati allo smartphone come a un cordone ombelicale con il paese di provenienza, la famiglia, gli amici. Qualcuno studia. Dal colloquio con Aliou, nella cornice informale del bar della piazza di Cotignola, apprendo che le mie mansioni devono di necessità allargarsi a includere l’alfabetizzazione di base; leggere e scrivere sono abilità che non posso permettermi di dare per scontate. Il primo incontro con i “ragazzi” – paternalismo in cui scivolano molti operatori del settore, indipendentemente dall’età degli assistiti – lo vivo un po’ come puro scontro di civiltà senza rete di sicurezza. Una decina, quasi tutti senegalesi; di età variabile tra i 18/20 e i 40 anni. Anche il dato anagrafico si rivela presto problematico; sia per l’assenza di documenti personali, sia per la “flessibilità” della pratica amministrativa africana. A maggior ragione quando un “ragazzo” una volta sostiene di avere 22 anni, e la settimana dopo ne dichiara 38.

Scambio bovino Gambia-Italia

La prima lezione, come ogni prima lezione di qualsiasi corso di lingua che si rispetti, è incentrata sulle presentazioni. Si impara a dire «Come ti chiami?», «quanti anni hai?», «da dove vieni?» e «che lavoro fai?». All’ultima domanda raccolgo un giro di risposte interessanti: elettricista, muratore, commerciante, falegname, contadino, contadino, contadino. I più hanno un mestiere, anche se non è sempre chiaro quanto l’abbiano esercitato. Conclude la lezione una domanda un po’ meno ortodossa: «Perché sei venuto in Italia?». E qui le facce si adombrano, le voci si abbassano e le risposte, prevedibilmente, si complicano: «È difficile da spiegare…». Qualcuno scappa da situazioni pericolose, oppure vuole una vita migliore… Un ragazzo, l’unico a venire dalla Costa d’Avorio, e per questo soprannominato dai compagni “Bagbo”, come l’ex presidente ivoriano, azzarda: qualcuno potrebbe aver commesso qualche sciocchezza nel suo paese, e cerca un posto dove ricominciare una nuova vita. Nessuno commenta.

Seguono mesi densi di esperienza, più istruttivi forse per il docente che per gli allievi. Presto mi rendo conto di non essere in grado di insegnare a leggere e scrivere ai pochi, per fortuna, che non hanno un’istruzione di base. Secondo qualunque buona regola pedagogica dovrei parlare italiano il più possibile, ma per intenderci impiego di fatto un francese alla buona. Chi non è scolarizzato, o è cresciuto fuori da un contesto urbano, oltre a non saper leggere, non parla neppure francese. Nell’altra classe, il secondo centro gestito da “Senegalesi Insieme”, la metà dei residenti vengono dal Gambia; con loro parlo inglese, e scopro l’esistenza di questa striscia di terreno ritagliata dal Senegal lungo l’omonimo fiume, una spartizione di territori tra Inghilterra e Francia che ha sconquassato senza troppi scrupoli relazioni tribali, etniche e linguistiche. Senegalesi e gambiani comunque se la intendono abbastanza tra di loro; l’associazione di Aliou, oltre a valersi di un solido radicamento della comunità nel territorio, può lavorare di fatto in base al criterio di una relativa omogeneità etnica, che semplifica un po’ la convivenza. Tutt’altra situazione avrò modo di osservare in seguito nei campi della Protezione civile, dove si mescolano senegalesi e nigeriani, ghanesi, maliani e anche qualche pakistano.

Cinquecento vacche

All’inizio tutto sembra facile. L’ora di italiano è un piacevole diversivo dalle lunghe giornate di ozio e noia, intervallate appena da una sortita in paese o da un torneo sportivo solidale. Solo d’estate un residente senza permesso può sperare di lavorare un po’ in campagna – in nero, ovviamente. Il mio arrivo quindi viene accolto di solito con grande buon umore, e spesso con offerte di cibo che non è facile rifiutare. La partecipazione alle lezioni è consistente, pur se non sempre costante; è più difficile far passare il concetto dello studio personale – ma questo vale per qualsiasi istituzione educativa. Non mancano gli equivoci linguistici e culturali, e del resto anche ridendo s’impara. Abdulrahman è gambiano, parla male inglese, il wolof – linguaggio di diverse tribù dell’Africa Occidentale – e un po’ di arabo, perché ha fatto la scuola coranica. In principio non riesco a capire se sia allevatore, macellaio o commerciante di bestiame; molto probabilmente perché da dove viene lui non sono attività distinte. I suoi compagni mi raccontano che in Gambia possiede qualcosa come cinquecento vacche. Io non ho una cognizione precisa del cambio bovino Gambia-Italia, ma qualcosa non mi torna: con tutti quei capi di bestiame non dovrebbe essere in grado di comprarsi la casa in cui abita come ospite dello Stato italiano, e magari stipendiare pure me? Un giorno che siamo tutti in vena mi viene raccontata l’altra metà della storia, ed è tanto bizzarra che per essere sicuro di aver capito la traduco in italiano e la faccio ripetere come esercizio: «Abdulrahman ha 500 mucche. Abdulrahman ama una ragazza di nome Amie Tamba. I due si sposano, ma la ragazza è molto brutta e le mucche muoiono tutte». Qualche perplessità rimane: alcuni sostengono che Amie Tamba avesse una maledizione; altri che la sua maledizione fosse precisamente la bruttezza. L’esatta dinamica del dramma si perde tra le risate generali.

Più sensato del matrimonio gay

Col passare dei mesi la curiosità reciproca cede un po’ il passo alla fatica, ed emergono i problemi. Gli studenti fanno progressi limitati, fatta eccezione per i pochi già scolarizzati; memorizzare e ripetere è un arduo traguardo per chi fatica a leggere. I materiali scarseggiano; mi destreggio con una lavagnetta portatile, un pennarello e una fotocopiatrice. I ragazzi riversano su di me tutte le loro lamentele. Il permesso di soggiorno non arriva; imparare l’italiano è difficile; manca l’assistenza medica e bisogna fare chilometri per trovare un dentista che ti visiti; d’inverno in Italia fa freddo, soprattutto di notte, e nel letto non c’è nessuno a scaldarti. Su questo punto in particolare si batte e si ribatte; posso aiutarli a conoscere ragazze italiane? In qualità di sola persona del luogo che conoscono, e possedendo una macchina, mi presto per forza di cose a svariati servizi, li accompagno alla stazione o agli allenamenti di calcio. Ma di fare il magnaccia non me la sento. Durante una lezione sulla segnaletica stradale, per distinguere tra la destra (droite) e il diritto (droit) si finisce a discutere di educazione civica: il diritto al lavoro, il diritto all’istruzione, il diritto alla salute. Il solito Bagbo sfodera un inedito «droit à la femme». Lo fermo: non esiste il diritto ad avere una donna; sarebbe come dire che la donna ha il dovere di prendersi te. Un po’ perplesso mi guarda e ribatte «Mais tout le monde doit se marier». Allora replico, quello che intendi tu non è il diritto, è il dovere di sposarsi; quindi diciamo che tutti hanno il dovere di sposarsi? Nel mezzo dell’ennesima esplosione di risate non manco di notare che la discussione è comunque più sensata del coevo dibattito parlamentare sul matrimonio egualitario.

Opulenza fittizia

Le complicazioni nascono anche dal continuo andirivieni degli ospiti dei centri, tra chi arriva e chi parte. In primavera il gambiano Tijan, insegnante e pertanto da me assunto stabilmente come assistente, se ne va in Austria a raggiungere la sua nuova fidanzata conosciuta su Facebook. Mi mostra le foto raggiante di orgoglio, io mi congratulo, sorvolando sui tre decenni di differenza anagrafica; ma so che da adesso sarà ancora più difficile. Chi resta spesso è il meno dotato di risorse culturali. Con l’arrivo dell’estate e la chiusura di certi corsi di lingua gratuiti in territorio comunale, anche la Protezione civile si rivolge a me per l’italiano, ed è qui che entro in contatto con una realtà assai più irrisolta e caotica. Una trentina di ospiti distribuiti – e spesso trasferiti – tra località diverse. I campi sono dislocati in abitazioni di campagna lontane dai centri abitati, le condizioni abitative sono precarie, il mix di nazionalità è quello già menzionato. I senegalesi musulmani, non di rado devoti, guardano dall’alto in basso i nigeriani cristiani (e non) per l’abitudine a bere alcool. I ghanesi, cristiani e rispettosi fino al servilismo, parlano poco ma puliscono e cucinano per tutti; un giorno però Isaac, quarant’anni, si mette a letto e smette di parlare. Vuole tornare a casa. I pakistani, educati e gentili, se ne stanno per conto proprio. A differenza degli altri non sono venuti attraverso la Libia – e i racconti di orrore sulla Libia, dove anche un bambino può comprare una pistola per pochi soldi, e dove tutti quelli che transitano diretti all’Europa hanno un’altissima probabilità di essere sequestrati per un riscatto, sono una costante – bensì passando per la Grecia, quando era ancora possibile. Due sono laureati; Ehsan ad esempio mi racconterà che in Pakistan suo padre ha un’attività avviata, in cui ci sarebbe posto per lui e i suoi fratelli; ma lui è qui perché vuole un lavoro qualificato, una macchina, una casa propria. La discrepanza tra i sogni di riscatto e la realtà europea è marcata e loro non vi sono estranei; spesso si fanno fotografare davanti al computer o vicino ad automobili costose, o non appena riescono a procurarsi un abito elegante, per farsi belli con chi è rimasto a casa di queste immagini di opulenza fittizia. Nei campi della Protezione civile ci sono i topi in cucina, manca il gas, i bagni non funzionano; la tensione è palpabile. Un giorno, durante un’ispezione dell’ente incaricato gli ospiti inscenano una mezza protesta, mi prendono in mezzo per tradurre le loro rivendicazioni. L’insegnamento assomiglia sempre di più a un’esercitazione militare, cede il passo alla diplomazia, mi sento smarrito.

Verso la fine dell’estate, improvvisamente com’era iniziata, l’esperienza è finita. Senegalesi insieme ha perso il bando per la concessione dei centri di accoglienza. Ormai sto entrando professionalmente nella scuola, preferisco concentrarmi su una cosa alla volta. Anche le relazioni con il mondo dell’accoglienza si sono sfilacciate e perse una dopo l’altra. A oggi sarebbe difficile spiegare agli amici operatori sociali e mediatori culturali che sto diventando un simpatizzante della Lega; nel bene e nel male si tratta di un ambiente politicamente connotato. E al tempo stesso è la realtà che continua a cambiare, a una velocità vertiginosa.

Moralismo e buonismo non servono

Buona parte dei centri di accoglienza del territorio sono stati acquisiti da un’unica realtà di assistenza sociale, e non è una brutta notizia trattandosi di una struttura solida dotata di esperienza sul campo, di risorse e competenza. Intanto però tutto il mondo è in subbuglio, le frontiere europee si chiudono una ad una, dalla Svezia all’Austria alla Francia; chi si pensava frequentemente solo di passaggio sul suolo italiano incontra sempre più difficoltà a raggiungere la propria destinazione. Il problema dell’immigrazione continua a dividere l’Italia, attraverso le ultime convulsioni dei governi di centrosinistra fino alle elezioni dello scorso marzo, e oltre. È uno scontro ideologizzato e intossicato da slogan e logiche di fazione; ma intanto la realtà, di cui ho avuto il privilegio di assaggiare un piccolo lembo, mal sopporta le contrapposizioni astratte. Da ciò che ho vissuto, visto e sentito eredito soprattutto ricordi, domande, e qualche certezza. Una: che la politica ha il dovere di occuparsi con onestà e decisione della questione migratoria. Moralismo e buoni sentimenti aiuteranno l’autostima, ma non fanno abbastanza presa sui problemi reali. Un’altra, che si tratta comunque di un fenomeno epocale, e quindi, anche una volta che le autorità competenti abbiano speso tutti i mezzi – leciti o meno – per contenerlo e orientarlo, ci troveremo in ogni caso a dovercene fare carico in quanto persone. 

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