Alfie Evans. Non si uccidono così anche i cavalli?

Di Caterina Giojelli
17 Aprile 2018
Così il destino non è più l’approdo a un compimento misterioso, ma a un’idea di futuro basata su ordinamenti e pronunciamenti fatali. Che da Charlie Gard a Isaiah Haastrup diventano prevedibili

«Appeal dismissed». «Rigettato»: quale flaccido verdetto scritto in margine al mistero della vita di Alfie Evans. Condannato all’asfissia dalla feroce determinazione di una Corte che guarda un bambino attaccato a un respiratore e ci vede un’imperdonabile seccatura. Appeal dismissed, appello rigettato, bisogna sbarazzarsi del bambino, non prima di aver espresso «sgomento» in aula per quanto è accaduto nell’ospedale dove è ricoverato negli ultimi giorni. Dove un mondo che doveva starsene buono e pigro pare non aver digerito le gallette a base di bambini incurabili offerte dal sistema sanitario inglese, rivendicando diritto di parola intorno a cosa è vita.

 IL TOTEM DEL BEST INTEREST. I supporti vitali resteranno attaccati fino all’ultimo, estremo, ricorso alla Corte Suprema già annunciato per oggi dai genitori. Ma «con grande chiarezza il best interest di Alfie è già stato determinato e la Corte ha già deciso quale trattamento porre in atto o meno», «non troviamo basi per accettare l’argomento della restrizione della libertà», «il ricorso di un legale diverso non cambia il fatto che la Corte ha già deciso sulla questione che i genitori continuano a portare avanti», «la visione dei genitori non può superare la decisione giudiziaria», «trasferirlo aumenterebbe i rischi», «la cosa più giusta è terminare la ventilazione. E quando c’è un conflitto tra genitori e interessi del bambino, è quest’ultimo a prevalere». Sono solo alcuni passaggi dell’ennesima surreale udienza, avvenuta ieri a Londra e segnata fin dalle prime battute da una protervia inconcepibile da parte dei giudici e dei legali dell’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool.

Da una parte, gli avvocati degli Evans che, appellandosi all’habeas corpus, chiedono di poter portare loro figlio al Bambino Gesù di Roma, che più volte ha dato la disponibilità ad accogliere Alfie per prendersene cura, senza accanimento terapeutico, senza procurare l’esito finale e fatale della sua esistenza. Dall’altra, gli avvocati dell’ospedale e il guardian del bambino, sordi ad ogni argomentazione, che si sperticano nella difesa di un suo migliore interesse – già stabilito da quattro sentenze precedenti, tutte favorevoli al distacco delle macchine che alimentano e nutrono il bambino per causarne la morte prematura: un interesse che chiaramente non si concilia con i desideri dei genitori e con l’offerta di cure palliative da parte di altri ospedali –, fino ad affermare che il trasporto a Roma violerebbe la convenzione Onu sui diritti dell’infanzia (che il Regno Unito non ha mai ratificato).

«Dare un nome alla malattia non cambierà la prognosi», «quello che succederebbe a Roma e a Monaco non altererebbe la prognosi», «è un trattamento che lo terrebbe in vita, laddove i tribunali del Regno Unito hanno stabilito che non è nel suo migliore interesse tenerlo in vita», sono alcune delle affermazioni in aula di Eleanor King, giudice della Corte d’Appello che l’11 aprile del 2017 autorizzò il Great Ormond Street Hospital di Londra a rimuovere i supporti vitali a Charlie Gard e che il 20 febbraio scorso confermò analoga decisione dell’Alta Corte per Alfie Evans. «La terribile realtà è che quasi tutto il cervello di Alfie è stato eroso, lasciando solo acqua e liquido spinale cerebrale», ha detto il giudice Moylan prima di pronunciare il verdetto citando il giudice Hayden. Quel giudice che aveva già definito la vita di Alfie «futile», cioè improduttiva. In altre parole una sciagura da reprimere per uno Stato depositario del bene comune insieme alla protesta di chi non accetta l’imposizione per decreto della perfezione auspicata. Perché è questo che sta accadendo in Inghilterra. Dove il destino non è più l’approdo personale a un compimento misterioso, ma a un’idea di futuro basata su ordinamenti e pronunciamenti fatali. Che da Charlie Gard a Isaiah Haastrup diventano prevedibili.

SI È ABBASSATA L’ASTICELLA. Credevamo che nessun medico potesse togliere la vita a un bambino solo perché non è possibile guarirlo. Soprattutto in presenza di una malattia che come nel caso di Alfie non è stata ancora diagnosticata. Soprattutto quando colleghi di ospedali europei di alto livello assicurano che è possibile fare approfondimenti e curare fino alla fine il piccolo senza accanimento terapeutico. Soprattutto quando è lo stesso giudice a ritenere assai «improbabile» che soffra, quando cioè a differenza di Charlie Gard non è in gioco la sofferenza o l’accanimento terapeutico bensì la futilità della vita stessa. Soprattutto dopo due interventi del Papa, l’ultimo al termine del Regina Coeli di domenica 15 aprile quando Francesco ha ricordato il piccolo paziente inglese insieme a Vincent Lambert, ricoverato a Reims in Francia, dove l’ospedale ha annunciato il distacco dei supporti vitali, «preghiamo perché ogni malato sia sempre rispettato nella sua dignità e curato in modo adatto alla sua condizione, con l’apporto concorde dei familiari, dei medici e degli altri operatori sanitari, con grande rispetto per la vita». Ma abbiamo anche letto un giudice citare Francesco proprio  a sostegno della tesi della sospensione dei sostegni vitali nel massimo interesse di Alfie. E che il vescovo Tom Bishop coinvolto con la squadra del cappellanato all’Alder Hey, ha offerto supporto ai medici e al personale. Ma «non ha incontrato i genitori che, beninteso, non sono Cattolici Romani» (cosa non vera, tra l’altro: Tom ha anche scritto al vescovo per dire di essere cattolico).
UN SALTO MORTALE. «È uno schiaffo alla ragione umana e una ferita alla coscienza, e segna una pagina tristissima della giurisprudenza che ci riporta a vicende del passato nefaste e irripetibili, l’affermazione che la vita di un bambino malato sia “inutile”», ha ricordato don Roberto Colombo, docente della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (Roma) e membro ordinario della Pontificia Accademia per la Vita (Città del Vaticano). «Che un giudice sia giunto a conclusioni sulla presunta inutilità del bambino sulla base delle considerazioni cliniche sul “cervello di Alfie” risulta ancor più sconcertante, perché opera un salto mortale dal biologico all’antropologico, dall’osservazione empirica al valore umano, che è epistemologicamente azzardato ed eticamente inaccettabile». 
Il docente e genetista sottolinea che «la medicina, con l’esame obiettivo e le indagini strumentali, ha il compito di riconoscere alcune terapie come “appropriate” o “futili” se apportano oppure non apportano un beneficio fisiologico o sintomatico al malato, non quello di provare la “utilità” o meno della sua vita».
Nell’estate del 2013, a Rio de Janeiro, durante la Messa che ha concluso la Giornata mondiale della gioventù davanti a oltre due milioni di persone, papa Francesco «ha accolto sull’altare una bambina anencefala, ancora in vita nonostante la gravissima anomalia cerebrale congenita, e i suoi genitori che gliela hanno presentata. Non è una lesione del cervello, benché grave, estesa, o “terminale” a privare di significato, utilità e valore la vita di un bambino – conclude don Colombo -, che è sempre un dono prezioso per i genitori, per la Chiesa e per l’umanità».

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