
E accade il nuovo che non c’era

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Giunti a una certa età anche i migliori teorici della lotta ai padri sembrano riscoprire l’irresistibile vocazione al padreternismo. Sarà che è un tiro facile al bersaglio, fatto sta che quasi tutta la letteratura dei cosiddetti baby-boomer sui cosiddetti millennial sembra inesorabilmente avvizzire nello spleen dei luoghi comuni. Prendiamo la quarta di copertina de Il dizionario illustrato dei #giovanimerda di Amleto De Silva, scrittore ultracinquantenne, blogger, già vignettista del settimanale Cuore e di Smemoranda: «Indolenti, accidiosi, presuntuosi, reazionari (soprattutto quando si atteggiano a sinistra pura e dura), pressappochisti, cazzocanisti, i giovani d’oggi si sono trasformati negli anziani di ieri». E prendiamola solo perché vi è spremuto il succo di tanti eleganti e deploranti libri ed editoriali, scritti col piglio di chi non intenderebbe versare una sola goccia di inchiostro a beneficio degli incolti figli e nipoti delle contestazioni, «ridicoli in modo imbarazzante», «se domani, per dire, salta fuori un deficiente a dire che basta ingerire venti calorie al giorno questi in venti giorni schiattano tutti». Per carità, è solo lo sfottò di De Silva a Linkiesta, ma sintetizza una ben strana parentela tra la bassa cucina dei giovani, accusati di overdose da pigrizia e politically correct, e quella alta dei tanti biasimanti padri e commentatori al seguito. Non diremo che sia un bello spettacolo, ma almeno è una solida conferma che le rivoluzioni non giungono mai a buon fine. Neanche quelle di una generazione votata al parricidio sommario e agli slogan “non fidarti di nessuno che abbia superato i trent’anni”.
A proposito di «questo interminabile elenco di lamentazioni, questo uso pluvioso di banalità borbottate sui giovani di mestiere, che vivono ignoranti, privi di libri e di ideali, saturi di iphone e di mainstream», c’è Marta. Ed è eccezionale che ci sia, altrimenti non sentiremmo uno Spartaco intonare un canto fuori dal coro. La prima volta che Pierluigi Battista la prese in braccio, lei gli piazzò addosso due occhi così, «amori, dolori, carriera, tutto poteva svanire, ma mia figlia no, si era conficcata per sempre al centro dell’universo – racconta a Tempi l’editorialista del Corriere della sera –. Tutto quello che ero si sarebbe trovato d’ora in poi a dipendere dall’atto concretissimo della sua nascita, della sua esistenza. Marta c’era, era fuori dalla pancia di sua madre, aveva spostato il nostro baricentro, e io ero diventato suo padre».
Oggi Pierluigi Battista ha 62 anni e le scatole piene di chi lamenta la decadenza dei tempi guardando i ragazzi dell’età di Marta, che di anni ne ha 25 e che continua a rinfrescargli lo sguardo, esattamente come quella prima volta che si sono guardati. Ma questo non c’è scritto nelle circa duecento pagine di bozze che Battista ha appena consegnato a Mondadori, e che diventeranno un libro in uscita da metà ottobre: «A proposito di Marta non è un memoriale, un saggio, non è nemmeno un romanzo. È un racconto. Quello del confronto serrato a cui la vita quotidiana chiama me e mia figlia. Nessun teorema, racconto infatti quello che ci è capitato e ci capita, la scoperta di cosa sia abissalmente cambiato nel mio mondo e quanto sia diverso il suo quando abbiamo a che fare con la politica, la musica, la lettura dei giornali, la fede, tutto».
Mi ha spostato il baricentro
Marta è una modalità sovversiva di vivere le cose. Al pari dei coetanei conosce mondi sconosciuti al padre, ha la sapienza di una età che le ha reso accessibile migliaia di occasioni e opportunità, e che i referenziati ragazzi della via Pal in rivolta contro i padri, il sistema, nelle piazze, non sanno immaginare. Battista ne aveva già accennato sul Foglio, «quando abbiamo portato nostra figlia al MoMa di New York, abbiamo scoperto che lei sapeva cose di Van Gogh che io ignoravo: “Perché nei cimiteri ci sono sempre i cipressi?”. Io non lo sapevo, lei sì, “e voi sopra i cinquant’anni certamente non lo sapete”». «Non legge un giornale nemmeno sotto tortura, ma compra un sacco di libri su Kindle. Va sul supporto elettronico perché così a letto legge più comodamente con la testa appoggiata al cuscino. Certo, se le chiedi più o meno in che secolo sarebbe scoppiata la Rivoluzione francese, la nebbia nella sua testa è impenetrabile, esattamente come la mia quando lei mi chiede qualcosa sul movimento delle maree. E poi, ecco la seconda cosa sorprendente, conosce tante cose che appassionavano sua madre».
Marta rimastica la sua eredità, il legame con la mamma scomparsa nel 2011, matura nelle minuzie delle cose, impila e compila il crescere secondo logiche variabili e indecifrabili, incorpora l’essenziale per farsi avanti sulla sua strada, incorpora musica, «una quantità impressionante di musica», incorpora nuove vie di accesso al rapporto con le cose, ne perde molte «ma questo accade sempre, a che pro restare assorbiti dal segno meno della gioventù? Sarebbe come puntellare una civiltà morta. Cosa ho perso quando è venuta al mondo e quanto ho guadagnato? Marta fa questo, i giovani fanno questo, accade, con i giovani, il nuovo che non c’era. Si è spostato il baricentro mentale e morale in cui siamo cresciuti, si è chiusa un’epoca e possiamo lagnarci dell’essere stati tagliati fuori da un nuovo mondo. Oppure, più semplicemente, siamo diventati i padri di questo mondo».
E come padre Battista ha cercato di capire. Capire dietro quei no secchi di Marta, gli scontri, i confronti, l’evidente incomunicabilità tra un mondo che c’è e uno che non c’è più cosa diavolo fosse successo, cosa diavolo fosse cambiato. Solo un anno fa lo aveva già fatto come figlio, ribelle a un padre consegnato alla storia nell’ormai celebre Mio padre era fascista, sempre per Mondadori.
Non è una divisa. Non è un’uniforme
«Mio padre erano due», ha scritto Battista. «C’era il borghese tranquillo che osservava con orgoglio una sua rigorosa etica del lavoro. E c’era il fascista sconfitto e piagato che rimuginava senza sosta, nel suo foro interiore, risentimento e rabbia. C’era il conservatore e c’era il ribelle. C’era il professionista di successo, l’avvocato stimato nel mondo forense, che esibiva con fierezza la sua casa arredata con gusto tradizionale, la sua famiglia numerosa, i simboli del benessere. E c’era l’uomo intimamente devastato da una storia che lo aveva condannato, tormentato da un dolore indicibile, schiacciato da un’ombra pesante, mangiato dentro da un’ossessione che non lo abbandonava mai». Fu il momento in cui Battista capì che doveva confrontarsi con quel borghese tranquillo e luminoso e quel fascista ossessionato e oscuro, con quell’anima apparente pacifica e interiormente tormentata. Pigi Battista era uscito dagli anni in cui il padre andava negato, cancellato, perché andava cancellata la legge borghese e ipocrita e i giovani di allora cantavano Dio è morto, perché non volevano credere a «ciò che spesso han mascherato con la fede nei miti eterni della patria o dell’eroe», dove l’obbedienza non poteva più essere una virtù e ribellarsi era il modo di affermarsi. Ma intuì qualcosa di più, era il momento di fare un passo in più: negare il Padre non aveva costruito un nuovo io, libero e sincero, le ipocrisie c’erano ancora tutte, dentro e fuori, nella società e nella coscienza. Confrontarsi con il padre non bastava, bisognava specchiarsi: capirsi figlio guardando il volto del padre, come si era capito padre guardando il volto della figlia.
«È stata la resa dei conti. Come in ogni guerra non si riconosce la complessità di una versione appiattita alla sua uniforme, scompare l’essere umano con la sua storia e rimane un uomo in divisa, ridotto allo stereotipo di un nemico. Ma un padre non è una divisa». Così come un figlio non è un’uniforme. Ecco perché il figlio di Vittorio e padre di Marta ha scritto un nuovo libro. Per riconoscere ancora una volta dietro le tutine mimetiche consegnate loro in coro dalla Storia, semplicemente la loro storia, che è anche la sua, la nostra storia.
«Non sono diventato fascista per riconciliarmi con un padre che non c’è più. Ma se è progressista guardare a una nuova generazione che cresce e articola quanto ricevuto in eredità secondo logiche misteriose e segrete, e uscire dal conflitto quotidiano con gli occhi rinfrescati, scriva pure che lo sono: Pierluigi Battista è un padre, dunque un progressista».
Foto Ansa
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