
Mondializzazione infelice in Francia

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Nella storia della Quinta Repubblica, l’esito delle elezioni presidenziali non era mai stato così incerto come in questo 2017, che potrebbe produrre nuovi e imprevedibili scossoni geopolitici, dopo la Brexit nel Regno Unito e l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti nel 2016. Domenica prossima, 23 aprile, e domenica 7 maggio, i francesi saranno chiamati alle urne per scegliere il successore del socialista François Hollande, e gli ultimi sondaggi ci dicono che lì davanti sono in quattro, accreditati tra il 18 e il 24 per cento, a contendersi la qualificazione al ballottaggio: Marine Le Pen, leader del Fn, che sogna il ripristino delle “sovranità perdute”, quella territoriale, monetaria, legislativa ed economica; Emmanuel Macron, candidato outsider di En Marche, che con un discorso europeista e liberale mira a conquistare l’Eliseo promuovendo un superamento dello schema tradizionale gauche-droite; François Fillon, cavallo dei Républicains, i neogollisti francesi, azzoppato dagli scandali giudiziari legati alla moglie e ai figli, ma convinto che il suo suo elettorato resterà compatto e premierà la sua esperienza; Jean-Luc Mélenchon, tribuno giacobino del Front de gauche, dotato di un grande talento oratorio, che con i suoi ologrammi, il suo canale YouTube molto pop e le sue formule incisive sta seducendo parecchi giovani urbani e i ragazzi delle periferie delusi dal Partito socialista.
Ma i sondaggi, lo abbiamo visto con la Brexit, con Trump ma anche con la vittoria schiacciante di Fillon alle primarie dei Républicains a novembre (lo davano tutti come il “quarto uomo”, dietro Nicolas Sarkozy, Alain Juppé e persino Bruno Le Maire), vanno accolti con cautela, tenendo anche conto che un terzo dei francesi non sa ancora a chi dare la propria preferenza. È per questo motivo, d’altronde, che alcuni giornali, a partire dal Parisien, hanno deciso in questi mesi di fare una pausa e di consacrarsi esclusivamente al giornalismo sul campo, di dare la priorità alle inchieste nei territori dimenticati dalla République, di addentrarsi in quella parte di paese che a Parigi suscita interesse soltanto al momento del voto: la Francia profonda e dei petits blancs, la Francia delle parrocchie e del terroir.
Lontano dalle mille luci della capitale francese, dalla mondanità febbrile della rive gauche, dai migliori ristoranti di cucina fusion del Marais, insomma da quella “mondializzazione felice” tanto decantata dai profeti del senzafrontierismo e del multiculturalismo, c’è un paese che si sente minacciato e insicuro, un paese che ha ancora voglia di mantenere il suo stile di vita ereditato dai propri antenati, che dà ancora un’importanza centrale alla questione dell’identità, alla famiglia, ai valori tradizionali, che non dimentica che la Francia è «la figlia primogenita della Chiesa», e preferisce il radicamento alla mobilità, la sedentarietà al nomadismo, la stabilità alla flessibilità, l’omogeneità alla diversità.
È stata chiamata in molti modi questa Francia silenziosa, tradizionalmente di destra, che compra in massa i libri di Éric Zemmour e condivide con il filosofo Alain Finkielkraut l’inquietudine identitaria dinanzi all’islamizzazione rampante e agli stravolgimenti etno-culturali in corso (Finkie l’ha chiamata identità malheureuse, infelice, appunto), ma è il geografo eterodosso Christophe Guilluy che ha saputo con maggiore acume delinearne i contorni in un libro pubblicato tre anni fa ma assolutamente attuale: La France péripherique. Guilluy, proseguendo un lavoro iniziato nel 2004 con Christophe Noyé, intitolato Atlas des nouvelles fractures sociales, ha per primo raccontato l’esodo di massa delle classi popolari, dei francesi autoctoni, de souche, verso la Francia rurale e il periurbano profondo, sempre più separati dalle banlieue «halalizzate», per riprendre le parole dell’islamologo Gilles Kepel, e dalle metropoli mondializzate e gentrificate, luoghi di residenza delle classi dirigenti.

Una frattura profonda
«Bisogna comprendere questa evoluzione alla luce di una società multiculturale nascente», scrive Guilluy, che punta il dito contro quelle élite che predicano l’apertura e la diversità, ma vivono nei quartieri più omogenei del paese, e «non hanno ancora misurato l’abisso ideologico e culturale che le separa oramai dalle classi più modeste». Inquieti per la messa in discussione del loro patrimonio valoriale e culturale, del loro “capitale di autoctonia”, i petits blancs rigettano sempre più i partiti che predicano la mobilità e difendono progetti liberal-libertari, e si spostano progressivamente verso chi porta avanti un discorso etno-identitario, di stabilità e radicamento territoriale, come Marine Le Pen e il suo Front national, ma anche come François Fillon. Il successo di quest’ultimo alle primarie neogolliste dello scorso novembre è stato l’esempio più lampante di questo smottamento elettorale. Un successo che ha rappresentato la vendetta di questa Francia profonda, il sussulto della provincia cattolica francese, contro la retorica progressista di un Alain Juppé che cercava di far dimenticare la sua aria da tecnocrate posando sugli Inrockuptibles senza la cravatta, e più in generale contro le élite parigine che hanno perso il contatto con la realtà.
Sulla frattura profonda tra Parigi e la Francia rurale, Guilluy ha dedicato anche il suo ultimo libro, Le crépuscule de la France d’en haut, analisi severa dei bobo, la “nuova borghesia”, che hanno cacciato le classi popolari dai loro quartieri storici, che predicano senza sosta il multiculturalismo, lavorano nel terziario, svolgono lavori intellettuali, esaltano il nomadismo e sono connessi all’economia-mondo. Sono coloro che voteranno in massa Macron, ma anche Benoît Hamon, candidato del Partito socialista, o Mélenchon del Front de gauche: tutti uniti da una celebrazione incessante delle “società aperte” e dall’apertura all’Altro come dogma. Ma basta andare a leggere due inchieste fresche di stampa per capire che questa Francia profonda, dimenticata dalle élite mondializzate, non si lascerà sedurre da questi discorsi, vuole sentire parlare di sicurezza e di identità, di lavoro e di valori tradizionali, di autorità e fermezza, ed è sempre più tentata dal voto per il Front national: un voto non più di protesta, ma di adesione.

Un mondo parallelo
La prima di queste inchieste si intitola “La France qui gronde” ed è stata realizzata da due giornalisti del settimanale Marianne, Jean-Marie Godard e Antoine Dreyfus, che hanno il merito di aver dato la parola a quella Francia dei senza voce che non ha nessun amplificatore mediatico nel “Partito dei media” (copyright Marcel Gauchet). Da Amiens e la sua deindustrializzazione alla cittadina di Saint-Étienne-du-Rouvray sconvolta dall’assassinio di don Hamel, passando per la Bretagna e i suoi commercianti stremati dalla concorrenza e per Marsiglia e i suoi problemi di ordine pubblico, i due giornalisti percorrono un paese arrabbiato, fratturato, che attende soltanto di essere ascoltato.
Nella seconda inchiesta, “Dans quelle France on vit”, i francesi intervistati dalla reporter Anne Nivat raccontano il loro sentimento di declassamento e di insicurezza, la piaga della disoccupazione giovanile nelle zone dimenticate e di conseguenza devastate dalla globalizzazione, e le loro inquietudini sulla minaccia identitaria rappresentata dall’immigrazione di massa e dall’islam politico. Ne emerge un quadro vivido della provincia francese, dove i politici sono visti come entità lontane appartenenti a un mondo parallelo. È la Francia dell’“insicurezza culturale”, secondo la formula del politologo Laurent Bouvet, che teme per la sopravvivenza della sua cultura e delle sue norme, la Francia dell’insicurezza fisica, che ha paura di essere aggredita, la Francia dell’insicurezza sociale, che ha paura di perdere il lavoro a vantaggio dell’Altro. È la Francia che domenica potrebbe vendicarsi contro coloro che non hanno ascoltato il suo lamento, che hanno fatto finta che non esistesse in questi anni di crisi economica e identitaria.
Foto Ansa
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