
Adesso tutti discettano di post-verità. Ma la verità non interessa a nessuno

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Una delle notizie più interessanti degli ultimi giorni è “la parola dell’anno” selezionata dallo staff dell’Oxford Dictionary, la bibbia della lingua inglese. Il termine è “post-truth”, post-verità, che serve a descrivere «circostanze in cui i fatti obiettivi influiscono sull’opinione pubblica meno degli appelli alle emozioni e alle convinzioni personali». Subito molti commentatori si sono affrettati a leggere in questa scelta un giudizio su eventi come il referendum sulla Brexit e le elezioni americane, «nei quali i dati di fatto sono stati sommersi da una propaganda priva di riferimenti reali e in cui, ha osservato qualcuno, il cuore (o meglio la pancia) ha surclassato il cervello». Così Repubblica. In realtà, come ha notato il Foglio, i lessicografi oxfordiani scelgono la parola dell’anno più che altro in base all’incremento nel suo utilizzo: con la designazione di post-truth non intendono interpretare i risultati delle due votazioni, ma piuttosto accomunare «la maniera in cui entrambe le campagne elettorali sono state condotte da favorevoli e contrari». I cataclismi dati per certi in caso di sconfitta del Remain e della Clinton non erano forse post-veritieri tanto quanto le sparate di Farage e di Trump?
È inquietante che i media mainstream, dopo aver fatto per anni la guerra alla verità “violenta” e perfino “terrorista” (ricordate gli editoriali dopo il Bataclan?), adesso si dicano pronti a scatenare un’altra guerra proprio nel nome della verità. Perfino l’eroe liberal Mark Zuckerberg, finito sotto accusa per non avere impedito la diffusione via Facebook delle “notizie false” ritenute determinanti per la vittoria di Trump, ha promesso che correrà ai ripari. È una prospettiva abbastanza minacciosa. Tutta questa improvvisa nostalgia per la verità non è che un altro modo per continuare ad anteporre i propri wishful thinking ai fatti. Tanto è vero che nessuno pare aver sentito l’esigenza di “verificare” alcunché alla luce dei dati. Il progresso è l’Europa, non la Brexit. Il futuro è Hillary, non Donald. Trump è pancia, apocalisse, «not my president». Punto.
Per altro il cortocircuito è double face. L’elezione di Trump è stata spiegata – vedi Siobhan Nash-Marshall in Tempi n. 46 – come la ribellione della cruda realtà alle troppe post-verità politicamente corrette somministrate al popolo su globalizzazione, diritti, eccetera, bugie che ormai per le élite al potere contano più dei fatti (appunto). Ma non è che a Trump la verità interessi granché. Il tycoon placcato d’oro si è letteralmente costruito sulle contraddizioni, per non dire panzane, ed è arrivato dove è arrivato proprio brandendo mille inconciliabili post-verità contro gli avversari.
Quid est veritas? La scelta dell’Oxford Dictionary poteva essere l’occasione per una grande, appassionante riflessione, non solo politica. Invece, come dimostrano certi commenti, non si riesce a uscire dalla solita lotta per il potere. Perché di questo si tratta. Non a caso nel 1984 immaginato da George Orwell il cuore della propaganda si chiamava ministero della Verità.
Foto Ansa
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