
Davigo e il vizio antico di descrivere le persone come «mosche»

Pubblichiamo la rubrica “Boris Godunov” di Renato Farina contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Boris ha imparato che uno dei frammenti dei filosofi eleati, tramandatici dai monaci, dice: «Donaci o Zeus il miracolo di un cambiamento». Abbiamo bisogno di cambiare, di tornare bambini, abbracciati alla verità e all’amore come ci accadde con nostra madre. Gesù dice: nascere di nuovo.
Pochi giorni fa, un incontro casuale, alla stazione Termini di Roma, sala di attesa del Frecciarossa: Antonio Di Pietro. Un giorno dividemmo un piatto di pasta e una fetta d’anguria, poi ci si rivedette in tribunale. Questa volta è scattato qualcosa di misterioso e ci siamo abbracciati. Qualche frase ovvia, di quelle che però dicono la verità, su noi stessi, le speranze, la famiglia. Qualche ora dopo, in risposta al mio, mi è arrivato questo sms: «Ciao, Renato. Anche io ti ho rivisto e salutato con piacere. Il tempo e gli anni ci aiutano molto a capire meglio gli altri. Per me ora è così. Antonio». Mia risposta: «Vale anche per me. Forse si cresce».
Ehi, non è l’incontro di due reduci con il bastone e i rimpianti. È qualcosa d’altro. Il tempo è un grande pedagogo. Bisogna lasciare frangere le onde dell’esperienza sul nostro «petto che molto ha sofferto» (Alceo), ma ha anche detto di sì a molte sciocchezze. E saper chiedere e riconoscere uno sguardo di misericordia, quello che ci viene incontro con questo Giubileo.
Ho detto Giubileo e sembra quasi che abbia detto giulebbe, che è un dolce, troppo dolce. Ma Boris non sopporta melensaggini. Sia chiaro, le idee di Di Pietro sono quelle di sempre, su giustizia e politica (almeno credo). Così le mie, diverse alquanto. Ma si guarda l’altro con compassione.
Una coerenza leggermente spaventosa
A volte però non si cambia proprio. Si dicono le stesse cose, con lo stesso rullo di tamburi che non muta mai ritmo. Dell’intimo non so, resta un enigma. Ma quanto al dire, idem con patate. Con nuovi alti pennacchi sulla fronte indubbiamente spaziosa, è ricomparso sulla scena pubblica Piercamillo Davigo, oggi capo del sindacato unico dei magistrati (Anm). Per chi avesse perso di vista la sua carriera, da testa fine del pool di Mani pulite è stato promosso consigliere alla Corte di Cassazione. Nessuno eccepisce su due doti: la competenza giuridica e il linguaggio chiaro, senza paludamenti. Ecco: Davigo parla esattamente come venti e passa anni fa, stesse formule, stessi aneddoti, e questa impossibilità di cambiare disco. Certo è coerenza, ma leggermente spaventosa.
Di recente è apparso in tv a Otto e mezzo, dove ha asfaltato con assoluta facilità Paolo Mieli, che timidamente criticava l’invasione di campo della magistratura nella politica. Tutte risposte straordinariamente efficaci, quelle di Davigo. Io mi permetto una sintesi difficilmente smontabile: “I ladri sono ladri sono ladri”, con la stessa intonazione lirica di “Una rosa è una rosa è una rosa” (Gertrude Stein). Possibile che la vita sia solo questo?
A prescindere dal processo e perfino dall’indagine
Certo, uno potrebbe dire: è il suo mestiere, prendere i ladri, anzi scoprirli, inquisirli, processarli e giudicarli. Ma la questione è che per lui non c’è nulla da scoprire. Si sa che sono ladri. Chi? La grandissima parte dei politici, degli amministratori pubblici, non si scappa. Si percepisce l’affermazione del diritto delle procure a sparare nel bosco della politica contro qualunque cosa si muova, nella certezza di beccare un colpevole, prima che ci sia non solo un processo ma un’indagine.
Anche quando dice cose sensatissime, Davigo è come se ci costringesse a leggere un ipertesto, che coincide con il suo sorriso quasi leonardesco, ma direi anche giacobinesco.
C’è una frase nell’intervista al Corriere della Sera molto interessante. Oggi la situazione è come allora?, chiede Aldo Cazzullo. «È peggio di allora. È come in quella barzelletta inventata sotto il fascismo. Il prefetto arriva in un paese e lo trova infestato di mosche e zanzare, e si lamenta con il podestà: “Qui non si fa la battaglia contro le mosche?”. “L’abbiamo fatta – risponde il podestà –. Solo che hanno vinto le mosche”. Ecco, in Italia hanno vinto le mosche. I corrotti». Questa identificazione tra persone (corrotte, da incarcerare, certo!) e insetti, mi spaventa molto. Di certo si scontra con l’articolo 27 della Costituzione dove si parla di umanità della pena e rieducazione. Umanità con le mosche, rieducazione delle mosche? Via, non scherziamo. Schiacciarle, si deve.
Foto Ansa
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3 commenti
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Grazie a Renato Farina per l’interessantissimo articolo.Nella politica c’è sempre stata corruzione, purtroppo,(tanto per citare l’Italia c’è molto più marciume politico nella tanto osannata seconda repubblica che non nella prima ,comunque).E’ sport nazionale dare addosso alla corruzione nella politica, e questo è più che legittimo nei casi di amministrazioni corrotte.ci mancherebbe.Quasi nessuno si sogna però di voler ripulire una Nazione partendo dall’alto, cioè da quelle oligarchie economiche e soprattutto finanziarie che dominano di fatto la politica stessa e dove spesso regna la corruzione e l’assoluto disprezzo del bene comune,in modo molto più preoccupante e pericoloso rispetto alla corruzione politica vera e propria.
Perchè io so’ io … e voi nun siete un c…. .