
Chi li ha visti?
«Il regista è andato in ferie». Oppure: «Uno sceneggiato di bassa qualità». O ancora: «Una storia con troppi luoghi comuni»; o «Fiction senz’anima». Sono solo alcuni dei commenti di alcune firme prestigiose (da Natalia Aspesi a Paolo Mereghetti, passando per molti siti internet e riviste del settore) sui film italiani in concorso a Venezia. Fino al monito ruggito dal Riformista («Non andate a vedere il film di Paolo Franchi» che bolla Nessuna qualità agli eroi come «un film con nessuna qualità filmica, umana o anche solo fallica»). Insomma, un disastro, confermato anche dalle parole di uno dei giurati, Ferzan Ozpetek che chiede ai giornalisti di non affondare il coltello nella piaga pur ammettendo che, certo, «nessuno dei tre film italiani è entrato nella cinquina finale per mancanza di gradimenti». Eppure si tratta di film con certificato di qualità, con tanto di lauti finanziamenti richiesti e concessi da parte dello Stato: 900 mila euro per il film di Franchi; 1.650.000 euro per L’ora di punta di Vincenzo Marra, quasi 2 milioni per Il dolce e l’amaro di Andrea Porporati, più gli “spiccioli” (400 mila euro) elargiti al film casereccio di Sabina Guzzanti, Le ragioni dell’aragosta. Facile scommettere che nessuno dei film, ovviamente, rientrerà nei costi: sta andando maluccio Il dolce e l’amaro (655 mila euro), male il film della Guzzanti (poco più di 250 mila euro di incasso), malissimo il film di Marra (poco più di 100 mila euro). Il film di Marra, una promessa del cinema italiano è, almeno per lo spettatore, una vera tragedia: un film in cui non succede niente per un’ora e mezza. Attori stoccafisso, personaggi che come per magia scompaiono e riappaiono, ellissi sbagliate, dialoghi ridicoli. E una storia pretenziosa di denuncia di loschi intrighi tra Guardia di finanza e palazzinari che, alla fine, a Venezia ha strappato più risate che applausi.
Tanti i film di qualità senza qualità e che hanno avuto un lasciapassare per i festival. Sotto falso nome di Roberto Andò, per esempio, proiezione speciale alla settimana della critica del Festival di Cannes è visto così dal critico Paolo D’Agostini (Repubblica, 28 febbraio 2004) «un cinema un po’ esangue» e con «attori disorientati», aggiunge Luca Malavasi in Cineforum 433. Un film che non piace alla critica e nemmeno al pubblico (meno di 500 mila euro di incasso a fronte di un forte finanziamento, più di 2 milioni di euro). Ma Andò è un regista per lo meno elegante, un po’ soporifero forse, ma in grado di portare a casa qualche migliaio di euro e relativamente poche stroncature. è andata peggio all’ultimo film del veterano Vittorio De Seta, Lettere dal Sahara, evento fuori concorso a Venezia 2006, che ha restituito solo 40 mila euro sul milione circa richiesto allo Stato.
W la scimmia e il popolo degli uccelli
Molti altri, invece, i festival non li hanno visti nemmeno col lanternino. Film dall’indubbia qualità artistica, tanto indubbia da venir immediatamente ritirati dalle sale: opere come W la scimmia (1998) di Marco Colli o il mai troppo citato Branchie di Francesco Martinotti con protagonista la pop star Gianluca Grignani, o ancora Raul – Diritto di uccidere di Marco Bolognini (2005), un film che ha, per una volta tanto, messo d’accordo tutta la critica che ha parlato come Roberto Chiesi su Cineforum, la rivista più autorevole di critica cinematografica, di «sciatteria artigianale, velleitarismo, effettismo dozzinali, assenza di rigore e di idee». Mentre la vicenda è «monocorde e fredda» secondo Maurizio Porro (Corriere della Sera, 16 aprile 2005). Chi è stato più tenero, Aldo Fittante su Film Tv n° 16/2005, ne ha parlato come di un film «sbrigativo e claudicante». Il risultato al botteghino, sconfortante, dà ragione ai critici e parla di 54 mila euro di incassi, mentre la spesa ha superato i 2 milioni di euro.
Le recensioni più divertenti sono state quelle dei film di Rocco Cesareo, autore di due film trash come Il popolo degli uccelli (1998) e Gli angeli di Borsellino (2003). Il popolo degli uccelli è la storia di un settantenne Lando Buzzanca alle prese con una seconda “giovinezza” in famiglia. Gualtiero De Marinis su Cineforum 344 è il più perfido: «Soggetto perfetto per il prime time televisivo [.] cast inguardabile. Sotto la media i valori tecnici». Incassi al minimo storico: poco più di 2 mila euro. Gli angeli di Borsellino è una vera palestra per le stroncature: la storia, che non sfigurerebbe in una qualsiasi modesta fiction televisiva, non è supportata né da una regia decente né da attori minimamente in parte. Il Dizionario di Pino Farinotti: «Un cast di pseudo-attori provenienti dal teatro leggero e dalla televisione (le sorelle Boccoli, Pino Insegno)», Aldo Fittante, il critico su Film Tv, 7 dicembre 2003, vede così il film: «Al timone di regia c’è un regista incapace di trasformare in cinema – azione, emozione, profondità dei caratteri… – una storia già incredibile e spaventosa. E se gli attori chiamati alle armi più che alle arti, non riescono a recitare in assetto almeno basic, il Borsellino tratteggiato da Tony Garrani è ridicolo per superficialità, il caposcorta Pino Insegno pare uscito da una delle tante teleparodie della Premiata Ditta e il pentito di Ernesto Mahieux è stereotipo allo stato (im)puro».
Soggetto civico e buone intenzioni
Una delle non qualità del cinema italiano di qualità sta proprio nel casting e nella recitazione, per così dire, approssimativa, per non dire della sciatteria registica. E in effetti per chi ha avuto la (s)fortuna di vedere il film di Cesareo viene proprio da chiedersi dove hanno preso certi attori, magari bravi doppiatori come Insegno, ma pessimi interpreti. Sguardi fissi nel vuoto, rigidità fisica, enfasi eccessiva, specie nelle figure di contorno. Viene anche da chiedersi come certi film abbiano potuto godere della patente di film di interesse culturale nazionale. Forse per il soggetto “civico”, o meglio per le buone intenzioni. Ma si deve scommettere soldi, parecchi soldi su delle buone intenzioni o sui fatti? Sono pessimi da questo punto di vista, molti film di “buone intenzioni”, ma di risultati terribili: negli ultimi dieci anni, lo Stato ha finanziato film per tutti gli interessi. Si va dal cinema colto ma inguardabile di Claudio Bondì, autore della biografia dello studioso d’arte Giulio Carlo Argan, L’educazione di Giulio (2000) e della storia del prefetto Rutilio Namanziano (De Reditu, 2004) al cinema storico di uno dei nostri big del cinema di qualità senza qualità, Egidio Eronico, che con il suo My father – Rua alguem 555 (2006) ci regala la storia commovente di un tedesco alla ricerca del padre nazista. Anche in questo caso, buoni propositi, un cast notevole (tra cui spicca l’ottuagenario Charlton Heston) ma sono molti i critici a ritenere come Gian Luigi Rondi (Il Tempo, 1 giugno 2006) che la regia «non è sempre all’altezza dell’assunto».
Ci sono poi molte biografie artistiche come Pontormo – Un amore eretico (2004) di Giovanni Fago («Assomiglia più che altro a un mediocre sceneggiato televisivo e nonostante la grandezza degli eventi storici citati, non si esce dal piattume e dall’ovvietà», Fiammetta Girola, Cineforum) o l’incredibile I banchieri di Dio – Il caso Calvi (2002) di Giuseppe Ferrara, un film semplicemente «sconcertante» come rileva Alberto Crespi su Film Tv 12/2002. Le ragioni di un disastro sono, sempre secondo Crespi «la narrazione che sta a cavallo fra un affastellato reportage televisivo e un teatrino dei pupi, e l’insieme è di impressionante bruttezza». Per non parlare del cast «allucinante» con «le prestazioni dei sosia di Andreotti e Craxi, nonché di un papa Wojtyla ripreso sempre di spalle (per ragioni “di rispetto”, ci informa una didascalia: ma quali, visto che gli si mettono in bocca battute agghiaccianti?) che sono forse la cosa più imbarazzante vista al cinema da molti anni a questa parte».
Come ti ballo il tango neonazista
Che cosa poi abbiano di culturale le chiappe di Anna Galiena, indimenticabile protagonista di Senso ’45 di Tinto Brass, qualche commissione ce lo dovrà pur dire. Tra l’altro, il film di Brass, definito dai più «imbarazzante» ha dalla sua uno script eccezionale con dialoghi alla Visconti: «Avevo sentito gli occhi della sua voglia prepotente tra le mie cosce. Ebbi un orgasmo». «Folle di gioia, la mia bocca accolse i frutti bollenti del suo orgasmo». «Smaniavo come una ninfomane in gabbia». Infine ci sono i film talmente brutti, incredibili, improponibili da apparire quasi naif e simpatici. Come il surreale La repubblica di San Gennaro (2003) di Massimo Costa, la storia di un’Italia del futuro in cui la Repubblica del Nord si è insediata e tutti i meridionali residenti in Padania vengono chiusi in riserve con filo spinato. Un soggetto originale, “estremo” una sorta di Blade Runner mediterraneo. Peccato che come ci ricorda Emiliano Morreale (Film Tv, marzo 2003) la commedia satirica è «al di sotto dei livelli di decenza professionale». Con una scena cult da inserire negli annali: il tango neonazista ballato da Lucrezia Lante della Rovere.
Quale la ragione per finanziare questi film? Non certo la fattura che la critica, all’unanimità, ritiene pessima. E nemmeno il curriculum del regista se è vero che uno come Ciro Ippolito, autore di Lacrime napulitane (1981) e Arrapaho – Uccelli d’Italia, il film con protagonisti gli Squallor, ha avuto qualcosa come 1.578.631 euro per girare il suo ultimo film, Vaniglia e cioccolato (2004), protagonisti Joaquín Cortés e Maria Grazia Cucinotta. «Un film di una tale ingenuità che passa ogni voglia di infierire», così Roberto Nepoti su Repubblica del 20 febbraio 2004. Un terribile fotoromanzo dove nulla è come dovrebbe essere, tra errori di montaggio e imbarazzanti interpretazioni dei protagonisti. «Colossale inabilità degli interpreti, macchiette napoletane a gogò, un’orchestra d’archi sotto la pioggia», Emiliano Morreale su Film Tv 9/2004.
Perché allora tutti questi soldi, per di più non restituiti per la maggior parte? E ai registi di maggior curriculum, come Arcangela Felice Assunta Wertmuller von Elgg Spanol von Braucich in arte Lina Wertmüller non va certo meglio. Il suo Peperoni ripieni e pesci in faccia (2004) è la pietra dello scandalo, il film specchio per farsi un’idea dei paradossi e degli sprechi dell’attuale legge sul cinema. Il film, costato un’enormità (3.718.500 euro, praticamente una delle cifre più alte sborsate da sempre dallo Stato per finanziare i film) incassa 6.625 euro. La critica lo stronca senza pietà interpretato tra l’altro dalla madrina del cinema italiano all’estero, Sofia Loren. Farinotti: «Il film, distribuito in sole dodici copie e accompagnato da aspre polemiche (quelle della regista contro la riduzione delle sovvenzioni, ndr) è un’insopportabile galleria di cliché sulla napoletanità». E considera malinconicamente: «C’è stato un tempo (tanto tempo fa) in cui la signora Wertmüller era capace di trascendere certe immagini persistenti dell’Italia, rovesciando i luoghi comuni in superbi affreschi comici». In poche parole il film è un completo disastro. Come il cinema italiano. Di qualità.
(1. continua)
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