Liberi oppure morti

Di Persico Roberto
05 Aprile 2007
È vero, anche quello tra greci e persiani fu scontro di civiltà. Ma non tra un manipolo di eroi e un'orda di bestie. Alle Termopili si decise da quale idea di uomo sarebbe nato l'Occidente

«Se c’è qualcuno che avrebbe delle ragioni per risentirsi, questi sarebbero i greci, non gli iraniani». Marta Sordi, professore emerito di Storia greca dell’Università Cattolica di Milano, ha accettato volentieri l’invito ad andare al cinema a vedere 300 insieme al cronista di Tempi. Già durante la proiezione non ha risparmiato i commenti, e a luci accese svolge le sue argomentazioni.
Perché i greci avrebbero da risentirsi? La pellicola di Zack Snyder li presenta come gli impavidi difensori della libertà.
Sì, ma in modo così distorto che non se ne coglie la vera grandezza. Tanto per cominciare è completamente trascurata la parte svolta dagli ateniesi, che il film liquida come chiacchieroni effeminati, mentre contribuirono in modo decisivo alla vittoria. Furono loro, tra l’altro, a convincere gli spartani a piazzare la linea difensiva alle Termopili, mentre quelli avrebbero preferito tenerla all’istmo di Corinto, per difendere solo il Peloponneso. E la difesa delle Termopili non fu un sacrificio inutile, ma ritardò i persiani quel tanto che permise alla flotta ateniese di riparare nelle acque di Salamina dove avrebbe definitivamente sbaragliato la flotta persiana. Poi viene largamente sottovalutato il peso delle altre città greche. Nel film sono rappresentate solo da quello sparuto gruppo di “arcadi”, “volonterosi dilettanti” come vengono definiti a un certo punto, generosi, certo, ma scarsi guerrieri e un po’ fifoni. Alle Termopili invece c’erano uomini di diverse città del Peloponneso. In tutto erano circa quattromila, e tutti combatterono valorosamente. Tanto che alla fine, quando i persiani piombano alle spalle dei greci, non furono loro a fuggire, fu invece Leonida che, vista persa la battaglia, li congedò. E gli abitanti di Tespie, circa quattrocento, rifiutarono l’ordine e rimasero a morire con gli spartani.
Almeno questi ultimi, però, gli spartani, nel film fanno bella figura: sacrificano la vita per la libertà e per l’onore.
Sì e no. Visto così, quello di Sparta appare un militarismo un po’ brutale e senza ragioni. Per di più sembra che la città sia contraria alla guerra, e che Leonida agisca di sua iniziativa, contro il volere del Consiglio. Invece Sparta era determinata a combattere, e Leonida partì su ordine delle magistrature cittadine. Certo, è vero che gli furono assegnati pochi uomini, perché molti, come ho detto, pensavano che fosse un suicidio difendere le Termopili, e preferirono tenere il grosso dell’esercito per difendere l’istmo. Lo stesso Leonida, che pure è l’eroe del film, ne esce meno bene di quel che fu in realtà. In primo luogo, non è partito disobbedendo alle leggi, ma su mandato del Consiglio della città; in secondo luogo, non costrinse nessuno al sacrificio, anzi, vista la sconfitta certa, fu lui a ordinare ai soldati delle altre città di andarsene.
In 300 sono gli efori a consigliare la resa.
Ecco, questo è veramente un punto ridicolo, che non fa assolutamente giustizia a Sparta. Gli efori non erano affatto quei sacerdoti pervertiti che il film presenta, ma dei magistrati ordinari che venivano eletti annualmente e avevano il compito di controllare che l’operato del governo fosse conforme alle leggi. Qui il regista vuole forse raffigurare l’oracolo di Apollo a Delfi, che, interrogato in merito, aveva effettivamente consigliato di trattare con Serse e non di combattere. Nemmeno i sacerdoti di Apollo, peraltro, erano loschi figuri; si trattava piuttosto, diremmo oggi, di scaltri diplomatici, spinti a dare quel parere non perché corrotti, come suggerisce il film, ma perché, come molti greci, pensavano che l’esercito persiano fosse invincibile, e che accettare l’atto di sottomissione richiesto da Serse, in fondo un tributo solo simbolico (acqua e terra), fosse ragionevole. In effetti resistere sembrava un’impresa disperata e a scegliere per la lotta furono in pochi.
In pochi, ma non solo Sparta.
No, infatti. Furono trentuno città a rifiutare l’atto di sottomissione, e i loro nomi sono incisi sulla colonna che i greci fecero innalzare di fronte al tempio di Apollo a Delfi, a perenne memoria della vittoria, e che ora si trova a Istanbul. E qui c’è un’altra precisazione da fare. Una delle scene più sbagliate di 300 è quando l’esercito spartano si incontra con gli altri peloponnesiaci: Leonida chiede ad alcuni di loro che mestiere fanno e questi rispondono chi vasaio, chi scultore, chi fabbro; poi il re di Sparta rivolge la medesima domanda ai suoi e questi rispondono con un urlo belluino che significherebbe “soldati”. Ebbene, qui viene completamente travisata la vera, grande novità del mondo greco.
E in cosa consiste questa novità?
Nel fatto che i greci sono contemporaneamente fabbri, vasai, scultori e soldati. Certo, in alcune città il fattore militare è più sottolineato e in altre meno, ma l’essenza della polis greca sta nell’idea che gli uomini liberi sono i cittadini in grado di portare le armi e di combattere per la difesa della città.
Anche a Sparta? Nei nostri libri di storia l’immagine che per lo più ne esce è quella di una società militarizzata, in cui una minoranza dedita solo all’arte della guerra vive sfruttando il lavoro degli schiavi.
È un’immagine falsata. Sparta è dominata sì da un’oligarchia, fatta di uomini che definiscono se stessi gli “uguali”. Ma questi sono, diremmo oggi, piccoli proprietari terrieri: ciascuno ha il suo podere, di dimensioni medio-piccole, che fa coltivare da servi. Le rendite della terra gli consentono di pagarsi l’armatura, e questa di combattere in difesa della città. Sono cittadini che sanno bene come la guerra sia inevitabile per difendere le proprie case, la propria terra, le proprie donne. E vi si preparano scrupolosamente, questo sì, fin da bambini. Ma la grande lezione di Sparta non è un senso dell’onore un po’ fine a se stesso, come appare dal film, ma il valore della disciplina, il senso del sacrificio nel combattimento a difesa di ciò che si ha di più caro.
Dove sta, allora, la famosa differenza tra Sparta e Atene?
Nel fatto che ad Atene l’attività, diciamo, professionale predomina su quella militare, mentre a Sparta vale il contrario. Atene poi allargò progressivamente il numero degli “uguali”, cioè di coloro che, proprio perché in grado di combattere, avevano diritto al titolo di cittadini. E questo avvenne perché, con l’ampliamento della flotta, crebbe il numero dei soldati necessari. Ma il criterio era il medesimo, ed era il fattore determinante della novità della polis: gli abitanti della polis sono uomini liberi perché sono in grado di difenderla con le armi. È qui che sta il punto chiave dell’opposizione ai persiani.
A proposito di persiani, parliamo di come appaiono loro nel film, visto che è proprio questo che ha fatto irritare, perfino ufficialmente, il goveno iraniano.
Anche i persiani appaiono un po’ caricaturali. I greci guardavano a loro come a un popolo affine, a lungo avevano avuto contatti culturali e commerciali. Del resto erano entrambi di origine indoeuropea: Grecia e Persia «sorelle della stessa stirpe», dice Eschilo nella tragedia I Persiani. Il regista di 300, invece, ci ha messo dentro tutte le immagini canoniche dell’Oriente, dando allo scontro un tono razziale che non aveva. Si trattò di un vero scontro di civiltà, questo sì, ma si consumò tutto sul piano culturale.
E con questo siamo arrivati al dunque. In cosa consistette propriamente lo “scontro di civiltà” tra greci e persiani?
In una differenza per nulla razziale ma totalmente politica: la lotta tra la libertà e la servitù. Tra la libertà del cittadino e la sottomissione del suddito. Questo punto fu percepito immediatamente dai greci come il fattore decisivo: «Mi sembrò che apparissero due donne ben vestite, l’una adorna di pepli persiani, l’altra in abiti dorici, perfette per bellezza, e sorelle della stessa stirpe», scrive Eschilo pochissimi anni dopo i fatti. «Costoro iniziarono una contesa, e mio figlio, accortosene, cercava di trattenerle e di placarle, e al carro aggioga e pone al loro collo le cinghie. Allora una s’inorgogliva di quella bardatura e aveva la bocca docile alle redini, l’altra invece si scuoteva e con le mani strappa i finimenti del carro, e lo trascina a forza senza freni, e spezza a metà il giogo». I greci stimavano l’impero persiano, sapevano che era ben amministrato e tollerante, a ciascuno dei popoli sottomessi lasciava le proprie usanze e i propri culti, garantiva loro pace e benessere. Ma era un impero di sudditi, e gli uomini delle polis greche avevano imparato a non tollerare alcuna sottomissione. Ed erano perfettamente consapevoli della novità politica che portavano.
Le allusioni del film allo scontro di civiltà in corso oggi sono trasparenti.
Sì, ma bisogna stare attenti. Io sono d’accordo sul fatto che oggi sia in corso uno scontro di civiltà, ma non si rende un buon servizio né alla storia né alla contemporaneità se si falsifica la storia in nome della contemporaneità. Solo rispettando veramente la storia si coglie il contemporaneo nell’antico. Nel film compare una contrapposizione quasi di sapore razzistico, e la civiltà greca sembra un militarismo un po’ brutale. Mentre in realtà il contrasto fu tutto politico, tra una società ricca ed efficiente ma basata sulla sottomissione e un’altra fondata invece sulla scoperta dell’individuo, dotato di ragione, perciò di capacità critica, perciò di libertà. Se non si capisce che in Grecia nasce questo tipo di uomo si rischia di non capire neppure che è per questo che vale la pena morire.

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