
Se Pinocchio fa il Lucignolo
Dal 2000 alla guida di Studio Aperto eppure ancora irresistibilmente attratto dalla carta stampata. A Mario Giordano non bastano anni di tv per scordare il suo primo amore. «Continuo a considerarmi un giornalista della carta stampata prestato alla televisione». Eppure di acqua sotto i ponti ne è passata, dagli inizi nei quotidiani (L’informazione, Il Giornale, Avvenire, Repubblica), fino allo sbarco nel piccolo schermo nel 1997 con Gad Lerner a Pinocchio, per arrivare alla poltrona del tg di Italia Uno. «La tv è uno strumento straordinario perché permette di raggiungere un pubblico che purtroppo i giornali e i libri (che continuo a scrivere) non possono raggiungere. La televisione ha una potenza narrativa di racconto che la carta stampata non ha più. Ha la potenza delle immagini. I giornali del 12 settembre non se li ricorda nessuno, i telegiornali dell’11 settembre se li ricordano tutti. Io credo che siamo alla vigilia di altre importanti trasformazioni, che la tv non sia neanche l’ultima frontiera. In redazione sto abituando i miei a ragionare in termini sempre più multimediali, a ragionare su tutti gli strumenti. Però io ancora adesso mi sento un giornalista della carta stampata. Quando scrivo un articolo mi sento più realizzato di quando faccio la televisione».
Direttore, lei è cresciuto a Il Nostro Tempo, giornale diocesano di Torino (oggi anche di Milano ), insieme a Marco Travaglio. Il Travaglio degli inizi era diverso da quello di oggi?
Sì e no. È sempre stato un uomo molto deciso, molto determinato, molto duro. La cosa che impressionava già allora in lui era la totale assenza di dubbi. È sempre stato molto documentato, molto preciso con un grandissimo archivio, un grande lavoratore. Ma se allora mi avessero detto che avrei letto Marco Travaglio sull’Unità, non ci avrei creduto. Aveva posizioni radicali contro la sinistra. Veniva da un cattolicesimo integrale, qualche volta integralista. Se ripenso ad allora e poi penso a oggi, resto stupito. E mi continua a stupire tutte le mattine quando lo leggo su quei giornali.
Fra i suoi maestri ci sono Vittorio Feltri e Renato Farina, quest’ultimo oggi sul banco degli imputati per il caso Pollari-Abu Omar. Che idea si è fatto di questa vicenda?
Non credo che sia giusto quello che sta capitando a Farina. Non voglio sostituirmi ai giudici o all’Ordine dei giornalisti, lo fanno già in tanti. Se sono state commesse infrazioni della nostra deontologia, si deve pagare, e lui sta pagando abbondantemente. Però c’è stato un accanimento nei suoi confronti che mi è sembrato e mi sembra eccessivo.
Perché è finito il suo sodalizio televisivo con Gad Lerner?
Perché lui lasciò la direzione del Tg1. Io avevo mollato tutto per seguirlo, ma poi lui si dimise per la vicenda del servizio sulla pedofilia. Mi dimisi anch’io. Quando portai la mia lettera al capo del personale lui mi guardò sconvolto: «Non mi era mai capitato di vedere uno che si dimette così», disse. Ritornai al Giornale e poi venni chiamato a Studio Aperto. Da allora le nostre strade si sono divise.
Studio Aperto sembra rivolgersi a un pubblico giovane e non troppo interessato alla politica. È una scelta di mercato di Mediaset o la realizzazione di una sua “vocazione”?
È chiaro che si tratta di un’esigenza editoriale. Italia Uno è una rete che respinge, o almeno accetta con molta fatica, l’informazione tradizionale. Il pastone di politica è indigeribile dal suo pubblico. Quindi dobbiamo cercare sempre forme e linguaggi nuovi dell’informazione che la mescolino con l’intrattenimento e la provocazione. Dunque è chiaramente una scelta legata all’azienda e agli obiettivi che ha questa rete, ma devo dire che mi ci diverto. Qualcuno dice che alcuni servizi sono un po’ troppo “osè”, ma noi non mostriamo nudo. C’è una grande attenzione al mondo dello spettacolo, del gossip, del leggero. Facciamo vedere delle immagini, anche di belle ragazze, immagini patinate, questo sì. Ma il nudo non lo facciamo vedere. Il pomeriggio andiamo in onda alle 18.30, un orario molto particolare: ci siamo confrontati e ci confrontiamo con programmi come Verissimo e La vita in diretta. Per cui è necessario mescolare i generi.
Tornerebbe ai talk show come Pinocchio? A fare l’inviato o il conduttore?
Quello che Gad Lerner fa oggi mi piace. Lui è bravissimo. Ha anche avuto la fortuna, si è creato la fortuna, di farlo in una rete molto protetta. Ogni tanto mi viene nostalgia per il Lerner di una volta su Rai Uno che accettava sfide anche più robuste. Però fa bene, fa quello che gli piace senza eccessiva angoscia di ascolti, di auditel. Quanto a me non credo di avere una particolare vocazione di conduttore di talk show e sono convinto che sia un genere ormai abusato. Mi piace molto di più sfruttare la potenzialità specifica della televisione per mostrare. Se dovessi creare nuovi spazi televisivi, sfrutterei quelle che sono le caratteristiche tipiche della televisione: immagini, inchieste, reportage.
Qual è il talk show che preferisce?
Direi Ballarò. Perché ha avuto il tempo di crescere, di consolidare alcuni meccanismi e una linea editoriale precisa ma senza eccessive forme di faziosità, diventando un punto di riferimento autorevole. Per cui se qualcuno voleva dire qualcosa negli ultimi anni, doveva passare da Ballarò. Questo è un merito che va riconosciuto a Floris. Anche Berlusconi è intervenuto in diretta a Ballarò, e questo è un segno di grande riconoscimento.
Cosa ne pensa di Berlusconi e Prodi?
Berlusconi ha un’umanità straordinaria, una capacità di farti sentire al centro della sua attenzione quando ti parla anche nei momenti in cui ha più problemi. Ha creato cose che prima non c’erano e che nessun altro sarebbe stato in grado di creare. Credo che nella storia poche persone siano riuscite a realizzare tanto. Prodi è un grandissimo navigatore, un grandissimo uomo di potere. Sa gestire il potere meglio di chiunque altro, e lo ha sempre dimostrato. Non per niente viene dalla vecchia scuola democristiana.
Qual è il segreto di un direttore di successo?
La voglia di fare e la passione per il racconto. Raccontare una cosa bene. Renato Farina è uno che me lo ha insegnato. Sa raccontare benissimo quello che succede a Desio, a Besana Brianza o a Washington. Lo sa raccontare con lo stesso stile e con la stessa capacità e passione. Per fare il direttore ci vuole questo, ecco. E poi tanto sangue freddo.
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