
Rilke e le cose
Ottant’anni fa, il 29 dicembre del 1926, in una clinica di Montreux, moriva di leucemia Rainer Maria Rilke. Vent’anni fa, o giù di lì, Paola Capriolo si innamorava delle sue poesie. «Incantata dal suono, dal ritmo dei suoi versi, innanzitutto. Poi, appunto, dal suo sguardo, dallo sguardo che porta sulle cose tentando di afferrare la loro essenza profonda».
Ora la lunga frequentazione è diventata un libro, Rilke. Biografia di uno sguardo. Ne parla a Tempi nel salotto di casa sua, la palla di pelo di una bellissima soriana appollaiata su un divano.
Chi è, dunque, Rainer Maria Rilke?
È l’ultima incarnazione della tradizione mistica. La mistica nasce, in generale, dal rimorso di essere “io”, di essere separato dalle cose. Il mistico – in qualunque tradizione religiosa, e anche al di fuori dalle tradizioni religiose in senso stretto – è un uomo che sente come una ferita dolorosa la separazione dalle cose, cerca di recuperare l’unità originaria di tutto. Ecco, lo sguardo di Rilke è uno sguardo che incessantemente cerca di superare la barriera fra sé e le cose.
La “linea del nichilismo”, lei scrive, tracciata all’inizio dell’epoca moderna.
Sì, la cultura moderna si costituisce tracciando la più netta delle linee di confine tra il soggetto e l’oggetto, per cui gli oggetti diventano cose che si possono produrre e annullare. Non è un’accusa, è la constatazione di un fatto, forse inevitabile. Rilke cerca di superare, aggirare questo fatto, ritrovare sé nelle cose e le cose in sé. Anche se non è facile. C’è una poesia, Svolta, in cui prende coscienza che anche lo sguardo poetico può essere uno sguardo che inchioda le cose a se stesse.
E allora?
E allora intraprende un altro sentiero, sostituisce all'”opera dello sguardo” l'”opera dell’amore”, abbraccia la tradizione platonica che vuol risalire dall’oggetto amato alla sorgente stessa dell’amore. Ma anche qui presto scopre che il rischio di ridurre l’oggetto amato a morta cosa è grande.
Ma non si arrende.
No. E qui compare la figura dell’angelo, l’interlocutore delle Elegie duinesi, mediatore misterioso fra la terra e il cielo. Dire le cose all’angelo significa per Rilke avventurarsi in una radicale metamorfosi del linguaggio, in grado ora di svelare la totale, assoluta immanenza del divino nella realtà.
Si può dire insomma che Rilke è un poeta religioso?
Se intendiamo questa parola nel senso dell’adesione a un credo preciso, no. Quel che lui trova al di là delle cose non è un Dio personale, ma uno spazio, un “aperto” che non si è mai finito di esplorare. Ma in un altro senso, io credo che non esista un poeta che non sia religioso. Perché un poeta è un uomo a cui il finito non basta, è un uomo che cerca sempre di cogliere nel finito un riflesso, uno scintillio dell’infinito.
Per finire, perché vale la pena che, a quasi un secolo di distanza, i nostri ragazzi leggano ancora le sue poesie?
Perché Rilke è un uomo che si interroga su quale sia il significato di una vita in cui le cose svaporano, sul valore che ha l’amore, sul senso profondo della morte: le sue domande sono le stesse dei nostri ragazzi.
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