
Arancia meccanica a Torino, la novità del male che diventa film
Quello che mette paura, è che filmino. Perché gli uomini, e i ragazzi, sono sempre stati capaci di violenza e di stupri e di scherzi crudeli. Gli uomini se la sono sempre presa contro i più deboli. Non c’è città europea che nel Medio Evo non sia stata presa d’assedio, e espugnata stuprando le donne. Non c’è villaggio nel mondo in cui una banda di fanciulli teppisti non abbia inseguito e accerchiatolo sciocco, l’indifeso, il capro espiatorio, per umiliarlo. Il male, c’è sempre stato. Quello che inquieta, è che diventi normale filmare i propri scempi, ciò di cui sembrerebbe umano avere, pure dopo averlo fatto, vergogna. O, almeno, paura, per le conseguenze che ne possono venire. Invece i ragazzi di quella scuola di Torino hanno ripreso gli schiaffi e gli insulti al compagno handicappato, e hanno anche messo il video in rete. Tre quindicenni di Napoli hanno filmato col telefonino lo stupro di gruppo di una tredicenne. Incuranti, con questo, di confezionare la prova per procurarsi anni di galera. Impuniti davanti alla fotocamera, anzi, più soddisfatti forse nel rivedere poi quella loro Arancia meccanica domestica, che addirittura nel compierla.
Felici, eccitati dal guardarsi, in quel irridere un debole, nel sopraffare in tre una bambina, compiaciuti all’idea di poter essere guardati poi anche da degli spettatori. Come al cinema. Come in televisione. Talmente cresciuti nell’idea che esiste davvero solo ciò che appare su uno schermo, da filmare anche ciò che fanno di ripugnante, purchè fuori dalla norma, purchè malvagiamente eccezionale. Purchè somigli a un film, e loro a degli attori – loro altrimenti condannati a sentirsi dei nulla, degli sfigati, per sempre esclusi dall’unica possibilità che intravedono per esistere: apparire.
Che vuol dire, se diventa plausibile filmare il male? Una volta il male non voleva essere visto. Tentava di nascondersi, se non nelle sue esplosioni collettive, nelle guerre civili, nelle vendette delle rivoluzioni. I privati teppisti, i violentatori si sarebbero fermati, alla vista di un obiettivo che li inchiodasse alle loro gesta. Forse perché il male – che gli uomini hanno sempre fatto, nei secoli, in maniera efferata e sanguinosa – era chiamato col suo nome: male. E non veniva naturale vantarsene, se non a pochi perversi, o criminali incalliti. Anzi, il ricordo di ciò che si era compiuto poteva anche tormentare le coscienze di persecutori e assassini, come testimoniano le pagine di Dostoevskji. Si chiamava “rimorso”, parola oggi desueta e impresentabile, al pari di quell’altra, “peccato”.
Il male che diventa film, tra le risate di ragazzi, è qualcosa di nuovo. Come l’alba livida di un’umanità non più cattiva, ma semplicemente, del bene e del male, immemore, o indifferente, quasi fossero concetti relativi. «Non ci rendevamo conto», han detto sbalorditi ai giudici gli studenti di Torino. «Non ho fatto niente, neanche mi sono alzata dal banco» si è difesa la ragazza, quella che nel film diceva: «Come puzza», e rideva.
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