
E l’agiografo vuotò il Sacco
Come scrive Alan Dershowitz, affascinante guru degli avvocati liberal d’America, «non si possono capire gli anni Venti senza Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Se si fossero chiamati Smith e Jones, se fossero cresciuti in Inghilterra invece che in Italia, il caso sarebbe stato ben differente. I giudici erano tutti bigotti anti-italiani ed anti-immigranti. L’establishment bianco, anglosassone e protestante era deciso a usarli come capri espiatori nella campagna contro l’immigrazione». L’ultima rivelazione che arriva dagli Stati Uniti sul caso dei due anarchici italiani rischia di abbattere definitivamente un altro dei presunti peccati originali della giustizia americana. Dopo la provata colpevolezza di Alger Hiss, l’alto funzionario del Dipartimento di Stato sulla cui innocenza scommise mezza America, a cominciare da un giudice della Corte suprema, Felix Frankfurter, e dalla moglie del futuro presidente, Eleanor Roosevelt. Hiss era davvero, come si ostinava a ripetere Richard Nixon, una spia al soldo di Mosca.
La prudenza è un collante necessario in questo nuovo capitolo della saga Sacco e Vanzetti. Una semplice lettera, spedita nel 1929 da Upton Sinclair, scrittore chic di Long Beach, a John Beardsley, avvocato della sinistra radicale di Los Angeles, è stata resa nota nei giorni scorsi dal Los Angeles Times, il più liberal dei quotidiani americani. Sinclair, per molti il simbolo del coraggio investigativo del giornalismo “indipendente”, racconta al suo avvocato di un colloquio avuto con il legale di Sacco e Vanzetti, Fred Moore. Sinclair in quel periodo stava lavorando a “Boston”, lo storico resoconto sull’incriminazione e la messa a morte dei due italiani. Sinclair incontrò Moore in un motel alla periferia di Denver. «Mi mandò nel panico. Solo nella stanza dell’hotel con Fred, lo supplicai di raccontarmi la verità. Mi disse che erano colpevoli e mi spiegò in ogni dettaglio come aveva costruito un set di alibi per loro». Secondo Theodore Roosevelt, Sinclair era solo un giornalista che “fruga nel letame”. Per il resto del paese, un eroe. Con la sua inchiesta sui macelli, Sinclair accelerò l’approvazione della legge del 1906 per il controllo del cibo e delle malattie.
POVERA FICTION MEDIASET
La storia è nota. Il 15 aprile del 1920 due rapinatori uccisero Frederick Parmentier, cassiere di una fabbrica di scarpe, e il custode, Alessandro Berardelli, fuggendo con 15.000 dollari. Alle 00.19 del 23 agosto 1927, sulla sedia elettrica della prigione di Charleston, nei pressi di Boston, muore Nicola Sacco. Dopo sette minuti la stessa sorte tocca a Vanzetti. Quel giorno Sinclair si trova fra i 25 mila americani che marciano per le strade di Boston in segno di lutto e protesta. Accanto a lui Dorothy Parker, l’anima letteraria dell’Algonquin, il bar intorno al quale nacque il New Yorker, il settimanale più chic e snob della sinistra americana.
Nel 1923, due anni dopo la fine del processo, era stato possibile stabilire in modo inconfutabile che le pallottole che avevano colpito Berardelli e Parmentier erano stata sparate dalla calibro 32 di Nicola Sacco. Nell’ottobre di quell’anno, l’esperto balistico dell’accusa Charles Van Amburgh, messi a confronto con la tecnica dell’ingrandimento fotografico il proiettile estratto dal cadavere di Berardelli e uno successivamente sparato dalla Colt 32 di Sacco, aveva potuto dimostrare che erano stati esplosi dalla stessa arma. In seguito, nel giugno del 1927, per invalidare questo riscontro che restava la prova regina dell’accusa, un comitato per la revisione del processo contattò Calvin Goddard, il massimo esperto americano in fatto di balistica forense. Davanti all’esperto del comitato a favore di Sacco e Vanzetti, Augustus Gill del Mit di Boston, Goddard sparò un colpo con l’arma di Sacco e comparò questo proiettile e il proiettile III ed esaminò poi anche la canna della pistola ricorrendo a due nuovi ritrovati tecnologici: il microscopio a comparazione e l’elissometro. Il referto fu inoppugnabile: come convennero Gill e il suo aiutante James Burns, la pistola di Sacco era quella con cui era stato ucciso Berardelli. Nel 1941 l’anarchico Carlo Tresca aveva già confidato a National Review che Sacco era colpevole e Vanzetti innocente. Un anno fa Mediaset ha mandato in onda uno sceneggiato sulla vicenda con Ennio Fantastichini e Sergio Rubini. Nicola Sacco è ritratto come un accattone senza arte né parte, quando era un lavoratore instancabile. La moglie e il figlio di Sacco non furono presenti all’arresto dei due anarchici, come invece drammattizza quella ridicola fiction televisiva. Sia Sacco sia Vanzetti rifiutarono l’assistenza spirituale prima dell’esecuzione e Sacco non lesse la Bibbia. Il film li ritrae invece come devoti poveracci.
Sulla rivelazione del Times è intervenuto un ex insegnante in pensione, Ideale Gambera. Suo padre, Giovanni, che militava fra gli anarchici di Boston vicini al gruppo di Sacco e Vanzetti, prima di morire gli confidò che Sacco era uno dei killer. Gambera ha detto nei giorni scorsi che c’era un patto di ferro per proteggere il “gruppo”. «Hanno tutti mentito», ha rivelato Ideale Gambera al Los Angeles Times. «Lo fecero per la causa».
Ma per una parte degli intellettuali americani i due italiani divennero subito dei “martiri”. Le signore ricche di New York si innamorarono di Sacco e Vanzetti, come sarebbe successo decenni dopo con le Pantere Nere immortalate da Tom Wolfe nel suo divino libretto Radical Chic. Per il cinquantenario della loro morte, il governatore del Massachusetts, Michael Dukakis, che si era fatto le ossa nello studio legale Hill and Barlow che nel 1921 aveva difeso Sacco e Vanzetti, dichiarò che «ogni disgrazia deve essere rimossa dai loro nomi». Bernard Shaw e Albert Einstein scrissero lettere per intercedere per anarchici e Romain Rolland provò con il governatore del Massachusetts. L’Internazionale comunista stampava intanto poster in difesa dei due giovani anarchici in galera.
Nella lettera pubblicata dal Los Angeles Times, Sinclair scrive di essersi trovato di fronte al «problema etico più difficile della mia vita. Andai a Boston con l’annuncio che stavo per scrivere la verità sul caso». Nel 1927 ne parla a Robert Minor, un suo confidente che lavorava al Socialist Daily Worker di New York: «Mia moglie è assolutamente certa che se dico ciò che credo, sarò chiamato traditore dal movimento. I miei lettori esteri, cioè il novanta per cento del totale, si aspettano una difesa incondizionata e ingenua di Sacco e Vanzetti». Sinclair fornì loro la miglior difesa che potessero mai sperare, da vivi e da morti, quella del demi-monde newyorchese. Non parlò mai più del colloquio con Moore e si portò nella tomba il suo terribile segreto.
E STA A VEDERE CHE è COLPA DI BUSH
Kurt Vonnegut, l’ultimo tartufaro in lotta contro il “clan Bush” che si è insediato in modo «sporco, meschino, farsesco», parlando con l’inviata del Corriere della Sera a New York, Alessandra Farkas, racconta che il silenzio di Sinclair era «il prezzo che tutti accettavano di pagare in nome della “causa”, il riscatto socio-economico di una nazione alla deriva». E che per il povero Vonnegut non si è mai più ripresa. Dà ragione quindi a Ideale Gambera. Su un punto Vonnegut è onesto: «Resto socialista e guardo con nostalgia a quei tempi lontani. Credo che stiamo assistendo al tentativo di riscrivere la storia secondo i canoni revisionisti dell’era Bush, tesi a trasformare i buoni in cattivi e viceversa». Dimentica evidentemente che l’ultima rivelazione su S&V è uscita su un quotidiano di sinistra, che si tratta di una lettera scritta dall’agiografo dei due anarchici e in cui parla il loro avvocato. Neanche l’ombra dei tremebondi scagnozzi del Presidente.
Il giorno della commemorazione di Dukakis, il giudice Peter Agnes candidamente ammise che non si sarebbe mai saputo se i due fossero effettivamente innocenti oppure colpevoli. Rileggere per credere. Forse il Washington Post avrebbe dovuto essere quindi un po’ più cauto, quando nel novembre del 2001 titolò: “Caro Ashcroft, ricordati di Sacco e Vanzetti”. Ashcroft, direbbero Vonnegut e Dershowitz, è l’esponente di spicco nell’amministrazione Bush «dell’establishment bianco, anglosassone e protestante». Il cerchio si chiude. Nel 1924, Sacco confessò al proprio legale che la pistola trovatagli addosso al momento dell’arresto non la portava a scopo puramente difensivo, come aveva dichiarato al processo, ma perché si sentiva «in guerra contro lo Stato».
I sostenitori della loro innocenza non hanno mai suffragato le loro convinzioni con prove concrete, che metterebbero definitivamente la parola fine su una vicenda che, al contrario, resta avvolta nel mistero. Ma anche stavolta forse preferiranno guardare altrove. Fino alla prossima fiction buonista.
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