Come ti salvo il Welfare

Di Rodolfo Casadei
08 Maggio 2003
A colloquio con Maite Barea, economista e docente dell’università di Madrid, autrice insieme al prof. Giancarlo Cesana del Rapporto Cefass 2003

Professoressa, il vostro rapporto è molto netto nel definire “insostenibile” l’attuale sistema di welfare europeo. Proponete la privatizzazione dei servizi di protezione sociale?
No, assolutamente. Il mercato non è in grado da solo di garantire al maggior numero di persone i beni della protezione sociale. E d’altra parte è vero che per mantenere il livello attuale di prestazioni gli stati della Ue dovrebbero aumentare i deficit di bilancio (violando gli accordi di Maastricht) o elevando la pressione fiscale a livelli insopportabili. Che il welfare europeo stia diventando insostenibile non lo diciamo solo noi, lo dicono gli organismi stessi della Ue. Allora sarebbe molto utile, fermo restando l’impegno pubblico nel welfare, mettere in competizione erogatori di servizi pubblici e privati per ottenere maggiore efficienza e risparmiare risorse.
E’ possibile davvero creare questa concorrenza virtuosa?
Sì, perché i “beni privilegiati” della protezione sociale sono pur sempre beni dotati di un prezzo e rivolti ad una domanda individuale. è giusto che l’Ente pubblico eserciti le sue funzioni di controllo per far sì che il bene sociale venga perseguito, ma il trasferimento della produzione di questi beni alla sfera pubblica rischia di far perdere i vantaggi tipici del mercato, cioè l’incitamento al miglioramento della qualità e al contenimento dei costi.
Le riforme del welfare in corso nei paesi Ue vanno in questa direzione?
Sì, anche se con molta timidezza, perché è ancora molto diffusa la percezione che ciò che è pubblico sia più morale di ciò che è privato. Tutte le pubbliche amministrazioni si stanno orientando verso l’assunzione di una logica di impresa, verso l’introduzione della concorrenza all’interno della stessa amministrazione pubblica e tra questa ed altri soggetti economici. Il finanziamento pubblico di servizi come la sanità o la scuola non implica necessariamente la produzione pubblica di questi servizi: possono operare imprese o altri attori dell’economia sociale con esiti migliori.
Esistono esperienze pilota a questo riguardo?
Nel nostro rapporto abbiamo proposto tre esempi, due di efficienza interna alla Pubblica Amministrazione grazie all’introduzione di criteri di managerialità e di distinzione fra ente che decide e regola ed ente che gestisce e produce, e uno di competizione virtuosa fra pubblico privato. Si tratta della riorganizzazione del sistema sanitario nella contea dell’Östergötland in Svezia, centrata sull’introduzione di manager nella gestione dei budget dei servizi primari; della trasformazione dell’ospedale di Alzira in una fondazione sanitaria sotto il controllo del Servizio sanitario di Valencia; e infine dell’esperienza del buono scuola in Lombardia.
L’immigrazione potrebbe essere una soluzione per le crisi del welfare europeo?
Solo in parte. Servirebbe un’immigrazione massiccia, che comporterebbe inevitabilmente problemi di integrazione di non facile soluzione: in Spagna dovrebbero insediarsi 12 milioni di lavoratori stranieri di qui al 2050 per riequlibrare la mancata fecondità. E d’altra parte gli immigrati sono anzitutto forti consumatori di welfare, proprio a causa delle aree disagiate da cui provengono.
Qual è la natura più vera della crisi del welfare europeo: politica, economica o culturale?
è anzitutto una crisi che nasce dal non riuscire più a riconoscere il senso della vita: gli europei non fanno più figli e cercano di aggirare la fatica del lavoro perché non vedono più un senso in queste due realtà umane.

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