Eppure c’è ragione di sperare

Di Rodolfo Casadei
24 Aprile 2003
Lo scetticismo circa i prossimi negoziati israelo-palestinesi è eccessivo. Ci sono motivi per ritenere che Bush fa sul serio e che Sharon non potrà dire di no

C’è in giro troppo pessimismo. Padre David Jaeger non è l’unico osservatore perplesso circa la possibilità che, tolto di mezzo il macigno irakeno, il processo di pace israelo-palestinese possa ripartire ed approdare alla svolta decisiva. Nonostante una rapida successione di segnali positivi – l’intervista di Sharon al quotidiano laburista israeliano Ha’aretz in cui il premier manifesta la sua disponibilità a “dolorose concessioni” ai palestinesi, l’imminente pubblicazione annunciata da Bush della road map elaborata dal “quartetto” Usa, Ue, Onu e Russia per definire tutti i passaggi necessari alla soluzione definitiva della contesa fra i due popoli, la buona disposizione del nuovo primo ministro dell’Autorità pelestinese Abu Mazen, l’offensiva diplomatica di Tony Blair per la creazione di uno stato palestinese – un compatto fuoco di sbarramento di reazioni scettiche ha salutato la nuova fase politico-diplomatica inaugurata dal successo militare anglo-americano in Irak. Si distinguono proprio i commentatori delle due capitali che più hanno collaborato con Washington per la caduta del regime irakeno, vista come condizione necessaria per una ridistribuzione delle carte in Medio Oriente: Tel Aviv e Londra. Eppure il loro scetticismo, tutto centrato su una valutazione negativa di Bush e Sharon, potrebbe rivelarsi una profezia di malaugurio inadempiuta come alcune di quelle che sono state pronunciate nei giorni della guerra all’Irak.

Laburisti israeliani non credono a Sharon
A mettere in discussione le intenzioni di Sharon non sono soltanto i palestinesi o i critici del primo ministro sparsi ai quattro angoli del mondo. Ha’aretz commenta così l’intervista del primo ministro: «…un attento esame di ciò che ha detto indica che mentre il futuro a cui si riferisce è molto distante e ancora non visibile, nel presente il primo ministro non ha intenzione di concedere alcunché né di affliggersi… leggendo le parole di Sharon non si può evitare di essere tormentati dal pensiero che, visto il modo in cui il suo governo ha affrontato la questione palestinese, il primo ministro sollevi “la questione delle fasi”, come lui la definisce, al fine di minare la road map impantanandola in discussioni vuote e senza fine che la condurrebbero all’oblio». Nahum Barnea dello Yediot Ahronot, un altro quotidiano israeliano che ha intervistato il primo ministro, ritiene che Sharon stia ponendo delle precondizioni che faranno fallire la road map, e cioè la rinuncia al ritorno dei profughi palestinesi del ’48 come premessa al negoziato e l’ingiunzione ai palestinesi di compiere per primi i necessari gesti distensivi, ai quali seguirebbero quelli di parte israeliana. Mentre la filosofia della road map è centrata esattamente sulla contemporaneità e sulla incondizionalità dell’attuazione degli obblighi delle due parti: nessuna di esse deve porre condizioni all’altra o prendere a pretesto inadempienze dell’altra per non adempiere ai propri impegni; sarà il meccanismo di monitoraggio indipendente della road map a stabilire se qualcuno va bacchettato perché non fa la sua parte.
Molto scettici anche i commentatori del Guardian di Londra, quotidiano laburista piuttosto critica nei confronti di Blair nei giorni della guerra all’Irak. Secondo Jonathan Freedland Sharon non accetterà mai di restituire più del 42% della Cisgiordania; Ewen MacAskill sottolinea che «Sharon ha detto ad Ha’aretz che è pronto a chiudere “alcuni” insediamenti, ma ne ha nominati solo due degli innumerevoli esistenti in Cisgiordania e Gaza. Per decenni egli è stato la forza trainante della creazione di insediamenti ebraici e non li abbandonerà tanto facilmente».

Bush ostaggio del “triangolo di ferro”?
Scetticismo e duri giudizi anche su Bush. Secondo Freedland, per la sua rielezione Bush punterà sulla politica interna e non sul raggiungimento della pace fra arabi ed israeliani, perché negli Usa «non c’è una base elettorale interessata alla pace in Medio Oriente, ma soltanto gruppi pronti ad arrabbiarsi se Bush fa una mossa sbagliata». Il problema sarebbe il “triangolo di ferro”: «Esso è composto da donatori ebrei, neo-conservatori e, soprattutto, Destra cristiana. Bush sarà riluttante a compiere gesti che possano essere considerati offensivi da questo triangolo, che è più a destra della comunità ebraica americana nel suo insieme. Bush senior fece l’errore, ed è convinto che gli costò la rielezione. Poiché l’“elezione invisibile”, cioè la raccolta dei fondi per le presidenziali, comincia già nel giugno prossimo, e poiché i Repubblicani vogliono penetrare fra i donatori ebrei tradizionalmente Democratici, per attività diplomatiche in Medio Oriente resta aperta soltanto una ‘finestra” di poche settimane».
Ma davvero da Bush e Sharon non ci si può aspettare niente per la pace fra israeliani e palestinesi? L’analisi pare affrettata e condizionata da pregiudizi. Il primo dei quali è la presunta inflessibile intransigenza di Sharon. Per quanto rigido, Sharon non può dimenticare due cose: la prima è che, come ha scritto David Makovsky sul New York Times, «l’esperienza mostra che quando gli elettori israeliani intravedono la speranza della pace, come è accaduto nel 1992 e nel 1999, non rieleggeranno il governo in carica che ignora l’occasione»; la seconda è che nessun primo ministro israeliano dopo il 1967 può permettersi di mettere gravemente a repentaglio i rapporti di Israele con gli Stati Uniti. La caduta del governo Likud di Shamir a causa della vittoria dei laburisti di Rabin nel 1992 e la sconfitta di Nethanyahu nel 1999 per opera della coalizione di 9 partiti attorno ai laburisti di Barak hanno entrambe visto in azione la mano americana, soprattutto nel primo dei due casi. Nel 1991 Yitzhak Shamir partecipò con riluttanza alla conferenza di pace di Madrid, voluta da Bush padre all’indomani della prima guerra del Golfo. Proseguì la politica degli insediamenti nei Territori Occupati e subì la rappresaglia di Bush padre, che congelò le garanzie per un prestito di 10 miliardi di dollari, indispensabile per costruire le case di 1 milione di immigrati ebrei dall’ex Unione Sovietica. Rabin, successore di Shamir, venne incontro alle richieste Usa, congelò nuovi insediamenti e recuperò i prestiti bloccati. Non era la prima volta che gli Usa usavano il bastone e la carota con Israele: nel 1956, al culmine della crisi del canale di Suez, minacciarono Tel Aviv di sanzioni economiche e militari se non avessero restituito agli egiziani i territori occupati nella penisola del Sinai.

Il progetto Bush ha bisogno della pace
Attualmente Israele riceve 2,7 miliardi di dollari all’anno di aiuti economici e militari dagli Usa, esporta 8 miliardi di dollari di prodotti, spesso a condizioni preferenziali, nella Ue e attende 10 miliardi di prestiti sulla scia dei provvedimenti post-guerra del Golfo. La pressione congiunta che Usa e Ue potrebbero, volendo, esercitare su Israele è evidente. Lo scetticismo si appunta proprio sulla questione della volontà. Ma esattamente qui sta l’errore. Al di là dei problemi legati alla campagna per le presidenziali del 2004, è certo che Bush ed i suoi strateghi vogliono fortissimamente la soluzione del contenzioso israelo-palestinese, perché esso è cruciale nella realizzazione della “grande strategia” che essi hanno in mente. Come spiegare, altrimenti, che proprio il super-falco Wolfowitz, l’architetto dell’attacco all’Irak che vorrebbe ripetere lo show pure con la Siria, nell’autunno scorso sia andato a farsi fischiare ad un meeting pro-israeliano sottolinenando le sofferenze dei palestinesi e la necessità che “decisioni difficili” fossero prese anche dagli israeliani? Si spiega con quel che scrive Michael Elliott su Time: «Se Bush riuscisse a promuovere una durevole soluzione della tragedia israelo-palestinese, molti dei sospetti che si appuntano sulla sua politica verrebbero meno… un’America che cercasse di risolvere una disputa che ha tormentato il mondo e causato profonda sofferenza per generazioni non potrebbe essere rigettata come un semplice discendente degli imperi senza cuore della storia». Insomma, proviamo a prendere sul serio quel progetto di emarginazione delle Nazioni Unite e di accentramento di tutta la sicurezza mondiale nelle mani degli Usa di cui Bush e i suoi vengono accusati, fra gli altri, da William Pfaff sull’Herald Tribune: «Bush nutre l’ambizione di… privare le Nazioni Unite delle loro funzioni politiche, lasciando ad esse le attività umanitarie ed altri utili e non controversi servizi internazionali, senza interferire nelle decisioni politiche delle nazioni, soprattutto quelle degli Usa… L’amministrazione Bush vuole un nuovo regime internazionale di coalizioni democratiche, che avrebbero la legittimità che manca all’Onu e potrebbero sventare rapidamente ed efficacemente le minacce all’ordine internazionale». Se davvero Bush vuole rivoluzionare il sistema internazionale in questa maniera, l’obiettivo di una soluzione al conflitto israelo-palestinese è ineludibile. Essa infatti sarebbe la prova che il mondo funziona molto meglio governato dall’egemonia americana che non da un’Onu paralizzata dai veti incrociati fra le grandi potenze e da regole che tutelano più i dittatori e gli stati canaglia che non la sicurezza globale. Quel giorno l’egemonia americana ispirerebbe non più timorata sottomissione, ma consenso.

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