
Insegnanti di irreligione
Liceo scientifico Serpieri di Rimini, assemblea studentesca sulla crisi irakena. Insieme ad altri due relatori mi chiamano a illustrare il contesto storico della vicenda. Dichiaro la mia contrarietà all’ipotesi di una guerra, ma anche alle ipocrisie del movimento pacifista. Arriva la domanda finale: qual è la strada per la pace fra i popoli? Rispondo con le parole di Paolo VI: “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Spiego che sviluppo vuol dire piena espressione della costruttività umana, e che questo richiede un cambiamento di mentalità e di cuore, e questo è soltanto frutto di un incontro che educa la libertà umana. Faccio un esempio tratto da un’esperienza africana: in Guinea Bissau i villaggi dell’interno che negli anni Settanta hanno accolto per primi l’annuncio cristiano sono gli stessi che hanno registrato i maggiori progressi anche in termini di qualità della vita: «I tassi di mortalità infantile e materna, la denutrizione, la povertà sono diminuiti. Perché è cambiato lo sguardo dell’uomo sulla donna, sui figli, sulla natura, sulla realtà. Hanno incontrato Dio in un modo che li fa lavorare, esercitare la ragione, amare in un modo migliore». Applausi, l’assemblea è finita. Ma un insegnante di religione si impadronisce di un microfono: «Non sono d’accordo con l’ultimo intervento, e lo dico proprio in quanto sacerdote, perché dà l’impressione che per stare meglio quei popoli debbono diventare cristiani e debbono diventare occidentali come noi. Invece siamo noi che dobbiamo cambiare nel senso della solidarietà. Vi invito a riflettere su ciò nelle classi». A questo siamo arrivati: i preti si vergognano della potenza umanizzante del Vangelo. Non li scuote più l’ammonimento di san Paolo nella prima lettera ai Corinzi che proprio la liturgia di domenica scorsa ci ha rammentato: «Non è per me un vanto predicare il Vangelo; è per me un dovere: guai a me se non predicassi il Vangelo!». In cosa credono, i preti pacifisti del 2003? Soltanto in bandiere scosse dal vento.
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