
Islam, l’ora del samizdat
Dopo giorni di pietose smentite la notizia apparve sui giornali in tutta la sua tragica certezza: una ventina di righe per annunciare che Ahmad Shah Massud, il “leone del Panshir”, uno dei migliori tattici del XX° secolo che, al contempo, aveva cercato sino all’ultimo la pace per l’Afghanistan, era stato ucciso in un attentato suicida, ordito, con ogni probabilità da Osama Bin Laden. Il giornale portava la data dell’11 settembre 2001 e, tra i tanti rimpianti, ci fu quello di chi, come il generale Morillon, dichiarò che Massud e l’Alleanza del Nord andavano aiutati militarmente anni prima degli attentati di New York e Washington. Nel documentario “Massud l’afghano” di Cristophe Ponfilly, il comandante tajiko rende grazie a Dio davanti ai suoi subalterni con questa preghiera: «Ringrazio, come dobbiamo fare tutti, l’Onnipotente che, ancora una volta ci ha donato la sua forza e la sua gentilezza. Egli ci ha dato una nuova occasione per salvare il nostro popolo e per salvare il nostro paese. Non esiste missione migliore di quella di salvare il proprio popolo dagli oppressori (leggi: talebani), da uomini così intolleranti e lontani da Dio. Noi lottiamo per la libertà. Per me la condanna peggiore sarebbe vivere in schiavitù».
I perseguitati musulmani
Oggi sembra quasi impossibile ottenere da un leader musulmano una recisa condanna della violenza e dell’intolleranza dei movimenti fondamentalisti armati, che seminano morte ai quattro angoli del mondo: eppure i primi a combattere contro questa nuova forma di ideologia totalitaria, coloro che sono maggiormente oppressi da questa intolleranza in paludamenti religiosi sono proprio altri musulmani come Massud. Sui monti Nuba, nel Sudan centrale, esiste un fiero popolo nero i cui antenati erano schiavi liberati da un milanese, Romolo Gessi, vicecomandante del leggendario generale Gordon. I Nuba musulmani combattono da almeno dieci anni a fianco dei cristiani e degli animisti del Sudan meridionale, subendo dal regime fondamentalista di Karthoum le stesse atroci persecuzioni che, erroneamente, noi cristiani pensiamo essere una nostra tragica esclusiva. Racconta l’imam nuba Abud Hammad, intervistato da Giovanni Porzio: «I soldati (di Karthoum) attaccano sempre all’alba. Arrivano in gruppi di cento o duecento militari armati di mitra e bazooka, incendiano i tukul, sparano sui civili, razziano il bestiame, saccheggiano i granai, rapiscono le donne e i bambini. Mia madre e mia moglie sono morte in un raid: qui a Kalkada più di 500 musulmani sono stati uccisi. I soldati hanno profanato la moschea, rubato la zakat, le donazioni per i poveri, e hanno persino gettato alle fiamme tutte le copie del Corano». Anche l’imam sudanese Ismail Omer Damri è rimasto scandalizzato dal comportamento dei governativi: «Dicono di essere musulmani, ma un musulmano non può distruggere una moschea che è la casa di Dio e non brucerebbe il Libro mandato da Dio». Eppure non si tratta solo di una lotta violenta o del martirio, ad oggi di oltre 200mila musulmani algerini ad opera del Gia islamico: anche i regimi autoritari arabi del Medio Oriente sono minacciati da al Qaeda ma, secondo Rohan Gunaratna, una pesante repressione ha finora impedito l’insediarsi di cellule terroristiche. Il problema, sempre secondo l’utore di Inside Al Qaeda, è che queste contromisure non sono compatibili con il sistema giudiziario occidentale. Una risposta di questo genere provocherebbe la degenerazione della nostra civiltà, squalificandola moralmente e, alla distanza, si rivelerebbe perdente, mentre è proprio il rispetto dei diritti umani, dovunque e senza compromessi, che può rivelarsi l’arma risolutiva contro il fondamentalismo islamico. Già oggi nel mondo musulmano vi è chi conduce una lotta non violenta contro questa forma di ideologia religiosa e non si tratta solo di qualche intellettuale isolato, come vorrebbe certa vulgata occidentale.
Il caso Aghajari
Non a caso, Thomas L. Friedman, uno dei think-thank della Casa Bianca e il maggior esperto di Medio Oriente del New York Times, non più in là del 5 dicembre scorso ha scritto che «quello che sta accadendo in Iran è il più promettente trend del mondo musulmano. Esso è una combinazione tra Martin Lutero e piazza Tienamen, segna la strada per la riforma dell’islam combinata con un movimento democratico spontaneo guidato dagli studenti». Un fatto fondamentale nota Friedman, perché anche se le democrazie occidentali riusciranno a liquidare Bin Laden e i suoi accoliti, rimane pur sempre chiaro che solo dall’interno delle società musulmane questa sfida dell’islam totalitario può essere raccolta e vinta in modo definitivo. Nelle ultime elezioni iraniane i riformisti hanno ottenuto l’80% dei consensi ma, secondo Hashem Aghajari, ex rivoluzionario khomeinista, docente di storia e mutilato di guerra, coloro che hanno perso le elezioni detengono ancora l’80% del potere grazie ai tribunali islamici. Proprio uno di questi tribunali ha condannato a morte Aghajani, anche per aver detto frasi come questa: «Non vogliamo una democrazia che metta da parte la religione, ma non vogliamo nemmeno che la democrazia sia calpestata da uomini in abito talare». Aghajari, che non riconosce l’autorità del tribunale che l’ha condannato, ha rifiutato di proporre un appello che l’avrebbe visto sicuramente assolto, ma che sarebbe apparso una resa. Il 29 novembre, dopo grandi manifestazioni in cui gli studenti hanno rischiato più volte di essere attaccati dai pasdaran, è stata annunciata la commutazione della pena ma il dissenso iraniano continua e assomiglia sempre più, nella sua grandezza misconosciuta, a quello dell’Est durante la Guerra Fredda. Nel gennaio 2001 una corte di giustizia iraniana ha condannato a morte tre agenti della polizia segreta, colpevoli di aver assassinato un dissidente ma i parenti della vittima hanno protestato contro il verdetto, affermando di non desiderare tanto la vendetta quanto lo sradicamento dell’intolleranza. è davanti a questi uomini e a queste donne che crolla miseramente lo schema dello “Scontro di civiltà”, disintegrato da ciò che ogni cuore di uomo desidera: giustizia, bellezza, felicità, amore di Dio e del prossimo.
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