
Lo zio Sam sbanca all’Onu
Che fine hanno fatto gli Stati Uniti unilateralisti e internazionalmente isolati, solitari nella loro cupa strapotenza? L’8 novembre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha votato all’unanimità il testo di una risoluzione da loro proposta, la 1441, che mette Saddam Hussein con le spalle al muro: o disarma o sprofonda. è vero che il testo a cui una settimana dopo l’uomo forte di Bagdad si è inchinato non prevede l’uso automatico della forza in caso di inadempienza od ostruzionismo grave, come inizialmente Washington aveva cercato di ottenere. Ma è difficile immaginare «gravi conseguenze» (questa l’espressione contenuta nella risoluzione) diverse da un intervento militare se l’Irak – che già è sottoposto a sanzioni da dodici anni – dovesse sottrarsi agli obblighi previsti dalla nuova deliberazione dell’Onu. Saddam deve ora consegnare entro l’8 dicembre l’elenco completo delle armi e dei programmi proibiti che dopo il 1998 ha mantenuto o acquisito; è evidente che se la dichiarazione dovesse rivelarsi, a seguito delle ispezioni della nuova missione Unmovic, mendace, gli Usa ci metterebbero meno di una notte ad ottenere il via libera del Consiglio di sicurezza per quel che l’amministrazione Bush ha in mente da molti mesi. Nel frattempo gli Usa possono godersi un successo diplomatico fino a qualche settimana fa impensabile: l’ultimatum a Saddam sottoscritto all’unanimità non solo dai membri permanenti del Consiglio di sicurezza, ma anche da quelli transitori, compresa addirittura la Siria; paesi, come la Francia e l’Iran, critici dell’iniziale approccio americano, oggi perfettamente allineati con gli Usa. Che cosa ha prodotto la svolta? Vediamo caso per caso.
Minuetto francese, débacle tedesca
L’insanabile contrasto fra una Parigi guardiana della pace e del multilateralismo e una Washington guerrafondaia e tracotante era solo fumo negli occhi buono per gli editoriali di Le Monde. In realtà la strategia di Chirac era intuibile sin dall’inizio: ostruire il più a lungo possibile i piani americani, per poi convergere all’ultimo minuto su di un accordo gradito a Washington da far passare come una vittoria della ragione e la conferma dell’insostituibile ruolo internazionale della Francia. In altre parole, il presidente francese ha colto al balzo la palla della crisi irachena per riprendersi quella leadership della politica estera dell’Unione Europea che la Francia aveva perduto a vantaggio della Germania di Schroeder e di Joschka Fischer dai giorni (maggio 1999) dell’intervento Nato in Kosovo. La furbata di Schroeder, che ha sacrificato le ambizioni della politica estera tedesca sull’altare della propria rielezione a cancelliere, imponendo alla Germania la camicia di forza di un neutralismo antiamericano e filo-irakeno, ha offerto alla Francia un’opportunità che una vecchia volpe come Chirac non poteva certamente lasciarsi sfuggire. Gli Usa avevano perfettamente compreso sin dall’inizio i vantaggi che potevano trarre dalla sorda rivalità franco-tedesca, come dimostra il fatto che per tutto il tempo del braccio di ferro franco-americano in Consiglio di Sicurezza nessun organo di stampa ha potuto dar conto di segnali di insofferenza verso Parigi da parte dell’amministrazione Bush. Gli americani si sono limitati a lasciar fare alle “colombe” dell’amministrazione, Colin Powell e l’ambasciatore all’Onu John Negroponte, e alla fine si sono ritrovati in mano un risultato superiore alle aspettative: una risoluzione che lascia apertissima la porta all’intervento militare, l’autorevole certificazione francese che gli Stati Uniti sanno agire nell’ottica multilaterale e l’emarginazione dell’inaffidabile Germania rosso-verde.
Il leone di Damasco a cuccia
La conversione della Siria è motivata da ragioni più prosaiche. Il paese della dinastia Assad è quello che, nell’immediato, ha più da rimetterci dalla deposizione di Saddam Hussein: incassa un miliardo di dollari all’anno fornendo all’Irak generi di prima necessità e pezzi di ricambio nel contesto del programma food for oil, e un altro miliardo grazie al contrabbando di un’importante quota di petrolio irakeno (200 mila barili al giorno) attraverso l’oleodotto che va da Kirkuk a Baniyas, sul mar Mediterraneo. Le diatribe del passato, quando Assad padre e Saddam Hussein, pur appartenendo allo stesso partito panarabo (il partito socialista Baath), sponsorizzavano reciproci tentativi di golpe a getto continuo, sembrano definitivamente sopite. Oggi i due paesi hanno in comune interessi economici e commerciali, una feroce ostilità ad Israele e la presenza nella lista Usa dei “paesi sponsor del terrorismo internazionale”. Da quest’ultimo fatto derivano alla Siria grossi problemi: nel settembre scorso il Congresso americano ha presentato un progetto di legge (il Syrian Accountability Act) per l’imposizione di sanzioni economiche alla Siria se essa si rifiutasse di sottomettersi ad una serie di adempimenti: rinunciare ad appoggiare i gruppi palestinesi di Hamas e Jihad islamica, disarmare gli Hezbollah libanesi, ritirare il suo esercito dal Libano e rispettare l’embargo Onu contro l’Irak. Il presidente Bush ha manifestato sin da settembre la sua opposizione al progetto di legge: come tutte le amministrazioni Usa, favorisce un approccio costruttivo verso lo “stato terrorista” siriano, considerandolo il tassello decisivo del mosaico della pace in Medio Oriente, il paese con cui prima o poi si dovrà concludere un’altra Camp David come quella del 1979 fra Egitto e Israele. E pertanto vuole avere le mani libere per alternare blandizie e minacce secondo necessità. Ora che controlla tutto il Congresso, Bush dispone esattamente di questa libertà, e a Damasco traggono le logiche conseguenze.
I riformisti iraniani convincono i conservatori
Al termine di un accalorato dibattito caratterizzato dai consueti colpi bassi (accuse di tradimento, intimidazioni, arresti) dei conservatori ai danni dei riformisti, gli iraniani hanno deciso di appoggiare la spallata americana a Saddam. In concreto, Teheran ha autorizzato gli sciiti iracheni del Consiglio supremo della Rivoluzione islamica, che hanno le loro basi in Iran, a collaborare con gli Usa al rovesciamento del despota di Bagdad e ha promesso assistenza alle varie delegazioni curde irachene che negli ultimi tempi si sono succedute nella capitale iraniana. A smuovere i conservatori dal loro antiamericanismo pregiudiziale è stato il pragmatismo dei riformisti, che hanno fatto notare come l’Iran abbia tratto pochi vantaggi dagli ultimi due interventi militari Usa nella regione, che pure hanno avuto come bersaglio storici avversari dell’Iran (l’Irak di Saddam Hussein nel 1991, l’Afghanistan dei talebani nel 2001), a causa della mancanza di rapporti diplomatici con Washington. «Dobbiamo orientare la nostra politica verso gli Usa secondo le esigenze attuali», ha dichiarato il riformista Mohsen Mirdamadi, presidente del comitato parlamentare per la sicurezza nazionale e la politica estera. «In passato, l’ostilità agli Usa serviva bene i nostri interessi. Oggi gli stessi interessi richiedono da parte nostra apertura verso gli Stati Uniti». Dietro l’angolo potrebbero esserci grosse sorprese.
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!