Miracolo a Nazareth

Di Rodolfo Casadei
21 Marzo 2002
C’è un posto in Israele dove arabi ed ebrei curano le rispettive ferite anziché combattersi. È l’ospedale dei Fatebenefratelli italiani a Nazareth. Avamposto che fatica a tirare avanti

24 gennaio. Ad Assisi il Papa prega con rappresentanti delle religioni di tutto il mondo per la pace. Ma a Tel Aviv, Gerusalemme, Nablus, Ramallah, gli attentatori suicidi esplodono fra la folla e le artiglierie israeliane martellano le località palestinesi. A Nazareth, in un reparto d’ospedale, una suora legge il capitolo 17 del Vangelo di Giovanni di fronte a infermieri musulmani, ebrei e cristiani: «Come tu, Padre, sei in me ed io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato». Poi tutti insieme cantano il Padre nostro in arabo. Quindi si prendono per mano e lo recitano in ebraico, gli occhi lucidi. Sciamano in silenzio alle loro occupazioni. Shlomo, medico ed ebreo, si trova di servizio al Pronto soccorso proprio in uno dei primi giorni della “seconda Intifada”. Arrivano decine di feriti arabi colpiti da polizia ed esercito israeliano. Mentre li assiste, un parente tenta di aggredirlo avendolo riconosciuto come ebreo. Gli infermieri arabi bloccano costui e lo riportano alla ragione. Shlomo continua il suo lavoro come se niente fosse. Ester è arrivata a Nazareth Illit (la città ebraica gemella di Nazareth) dall’Argentina da poco tempo, il marito è ancora là. Deve essere ricoverata urgentemente, e non può riportare a casa i due figli piccoli che ha portato con sé in ospedale. Fatme, infermiera musulmana, chiama il marito Abdul che nel cuore della notte riporta i due bambini alla località ebraica. Non abbiamo inventato o abbellito nulla: queste e molte altre storie ancora sono fatti di vita quotidiana all’ospedale della Sacra Famiglia a Nazareth, cittadina tutta araba di 65 mila abitanti dentro ai confini storici dello stato di Israele. A rendere possibile questo miracolo di convivenza in una terra dove guerre e violenze di tutti i tipi vanno avanti da 55 anni sono dei religiosi italiani: i frati ospedalieri dell’ordine S. Giovanni di Dio, più noti come Fatebenefratelli. Sono stati loro a fondare, quasi 120 anni fa, questo ospedale che da allora ha resistito a tutto: guerre mondiali e locali, occupazioni e chiusure, terremoti e crisi finanziarie. Per arrivare al piccolo, enorme miracolo di oggi: un istituto sanitario in una regione israeliana a maggioranza araba dove lavorano fianco a fianco medici ed infermieri musulmani, cristiani, ebrei e drusi, arabi e non arabi, e pure pazienti e ricoverati appartengono a tutte le religioni e a tutte le etnie. Ovvio che i problemi non mancano in questo avamposto della salute e della pace, 105 posti letto, 7.500 ricoveri e 20 mila visite ambulatoriali all’anno: «Le attività dell’ospedale – spiega Giuseppe Fraizzoli, direttore generale da sei mesi – costano l’equivalente di 25 miliardi di lire all’anno, ma i ricavi non ne coprono più di 20-22.

Il resto ce lo devono mettere i Fatebenefratelli di tasca propria. In Israele la sanità è rimborsata da 4 Casse mutue a cui tutti i cittadini sono obbligatoriamente iscritti, ma noi siamo un ospedale di proprietà straniera, e non possiamo usufruire di tutti i vantaggi del sistema: a noi la Cassa mutua paga solo il 77,5 per cento del tariffario nazionale delle prestazioni». Nel ’97, in tempi più tranquilli di quelli odierni, era stato progettato un ampliamento dei vecchi reparti e l’apertura di nuovi, che avrebbe portato a 212 i posti letto disponibili. Ma i deficit e la crisi politica hanno paralizzato il progetto. E adesso si lotta per la sopravvivenza. Questo è un Sos a tutti gli uomini di buona volontà.

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