Riempire le fabbriche non le piazze

Di Rodolfo Casadei
21 Marzo 2002
Sì alla riforma dell’art. 18. Parla Massimo Ferlini, ex segretario Pci milanese e attuale vice-presidente nazionale della Compagnia delle Opere

Massimo Ferlini, perché ha firmato l’“appello per il lavoro” in difesa della riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori?

Perché condivido lo spirito della riforma. Perché questa riforma porta avanti in Italia una politica seria dell’occupazione e soprattutto della qualità dell’occupazione. Oggi in Italia abbiamo una legislazione del lavoro che tutela una minoranza di persone che sono all’interno del sistema e ignora la maggioranza che ne è fuori. E a ciò corrisponde un dato che definirei tragico: la percentuale di popolazione attiva regolarmente occupata è nettamente inferiore alla media europea, siamo al 53% di italiani occupati contro una media Ue del 63%. In cosa consistono i dieci punti di differenza che registriamo? In centinaia di migliaia di addetti in nero, tenuti fuori dal mercato del lavoro perché le imprese hanno paura di assumere, e in altre centinaia di migliaia costretti al lavoro nero perché avrebbero bisogno della flessibilità per esigenze personali, ma non la trovano nell’attuale legi-

slazione. Parlare di diritti del lavoro vuol dire rispondere anche ai diritti di questa gente.

Dove sbaglia il sindacato?

Sbaglia nel voler difendere un dispositivo che appartiene a un’altra epoca. Sbaglia nel fossilizzare una legislazione dei diritti che non riguarda più i diritti principali del lavoro, ma di una parte soltanto dei lavoratori: quelli della grande impresa e della Pubblica Amministrazione, mentre tutti gli altri godono di meno diritti. Sbaglia nel contrapporre il diritto a licenziare al diritto al lavoro, perché il risultato della riforma sarà un maggior numero di assunzioni e di maggiore qualità.

Allora il governo ha ragione quando dice «voi riempite le piazze, ma noi riempiremo le fabbriche»?

Sì. Se si adeguano le forme di tutela dei diritti del lavoro alle esigenze realmente esistenti, aumenterà il numero degli occupati ufficiali in questo paese. E questo è molto importante anche nell’ottica del welfare: per finanziare tutti gli ammortizzatori sociali che servono a gestire le crisi aziendali, i periodi passaggio, la formazione di chi deve cambiare lavoro, servono i contributi di chi ha già lavoro.

Perché il sindacato non accetta questa visione e insiste a contrapporsi così duramente?

Ho l’impressione che ci sia un vizio ideologico. Il sindacato rappresenta solo una quota di lavoratori, ma vuole esercitare un diritto di veto sulle normative del lavoro. Per questo va ad uno scontro di potere col governo, che è l’espressione di una maggioranza democratica. Il sindacato ha ri-

nunciato al metodo sindacale, che è quello della trattativa, per uno scontro tutto politico col governo.

Che incidenza ha attualmente la vigenza dell’art. 18 sulla vita delle imprese e sul mercato del lavoro in Italia?

Due tipi di incidenza. La prima dipende dal fatto che dagli effetti dell’art. 18, cioè l’obbligo del reintegro per i licenziamenti senza giusta causa, sono escluse tutte le aziende sotto i 15 dipendenti. Quindi si produce un effetto-contenimento: le aziende si fermano a 15 dipendenti, non fanno altre assunzioni per non ricadere sotto l’art. 18. La seconda consiste nel mantenimento in zona nera o grigia di un gran numero di lavoratori in alcune aree del paese: lavoratori che hanno cominciato con contratti di collaborazione coordinata e continuativa o con partita Iva, e che non riescono ad ottenere il contratto a tempo indeterminato per l’effetto dissuasivo dell’art. 18.

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