Claudel, niente al mondo ci farà amare la morale

Di Valenti Francesco
16 Agosto 2001
Secondo Benedetto Croce era un “nevropatico”, per l’intellettual prezzoliniano un “gorilla cattolico”, per l’uomo d’oggi un perfetto sconosciuto. Eppure c’è chi è convinto che la sua sia tra le opere di più grande poesia d’ogni tempo. Il qui di seguito scrittore e intellettuale F.V., per esempio, ne è persuaso. Con documentazione storica e rivelazioni letterarie davvero folgoranti. Ecco un contributo, ben oltre il saggio d’occasione, a ristabilire un nesso vivente con la vita intellettuale. E che, scommettiamo, piacerebbe leggere (e forse gli procurerebbe un po’ di liberazione dal crimine di un’educazione non ricevuta, nella pleonastica presenza di maestri e padri in famiglia e a scuola), anche a un punk-a-bestia, a un black-bloc, a un teppista lanciamotorini giù in curva. Un secolo ai piedi della croce: “L’Annuncio a Maria” di Paul Claudel di Francesco Valenti

La tradizione interrotta e l’annunzio a Maria

Le parole e le immagini appartengono al tempo storico che ciascuno si trova a vivere e al popolo nel quale si è nati, e a questa legge non sfugge nemmeno la poesia. Per questo tutta l’autentica arte di un secolo tanto drammatico e selvaggio quale il Novecento, quando tenta di innalzarsi e di vedere, porta con sé i segni di un claudicante Giacobbe o di un balbuziente Mosè, e reca impresso come sigillo, insieme al significato, lo sforzo compiuto per riappropriarsene. «Non viviamo che per resistere, per ricominciare la misteriosa lotta d’Israele», diceva Paul Claudel nel suo libro sull’arte poetica. Egli appartiene alla generazione dei giovani scrittori francesi dell’ultimo ventennio dell’800, per i quali vale alla lettera il celebre dilemma espresso nel 1884 dallo scrittore Barbey d’Aurevilly a proposito di À rebours di Joris Karl Huysmans: «Dopo un libro come questo, al suo autore non resta più che scegliere tra la bocca di una pistola e i piedi della croce».

Claudel, la milizia in tempi di privazione

Nel deserto della tradizione interrotta, in un preciso momento, per molti di loro vi fu la possibilità di abbracciare i piedi della croce, attraverso L’Annuncio a Maria, vale a dire un imprevisto che scuote e richiama, in mezzo alla bufera della modernità che nega il cristianesimo. È quello che nell’omonimo dramma del 1912 di Claudel avviene per la protagonista, Violaine, che dice al fidanzato della lebbra che ha contratto, e che dà inizio a tutta la vicenda: «Dio ha messo la mano su di me, e tu non puoi difendermi». Ha scritto Giovanni Colombo nel suo saggio del 1937 su Claudel: «Tutto il dramma di Violaine s’intitola L’Annonce faite à Marie perché il mistero dell’Annunciazione è per lei, come per ciascun uomo in diversa misura, attuale. Si noti come l’arte di Claudel colga i dogmi della Chiesa nel punto in cui s’innestano nella vita». Dal giorno di Natale del 1886 anche Claudel semplicemente credette, poi scrisse e riannodò i fili, e continuò a pensare gli oggetti e i significati, senza troppo badare alle ideologie di moda e al plauso del successo di massa. L’opera di Paul Claudel ben rappresenta così la trionfante insistenza e la zoppicante saldezza di una milizia in tempi di privazione. Non sottraendosi al compito di cui si è sentito investire in quel pomeriggio del 1886 in Notre-Dame a Parigi – e la cattedrale conserva ancora nel transetto destro, vicino all’altare, una mattonella a ricordo del Magnificat che vinse il giovane materialista – egli tirò dritto e si fece a diciott’anni seguace cristiano del maudit Arthur Rimbaud, provò desiderio per la vita conventuale, si invaghì di una donna sposata e madre di quattro figli, a venticinque anni divenne poeta e viceconsole di Francia a Boston e in Cina, poi ambasciatore e cantore della chiesa cattolica, dell’amore come cómpito e della vita come dedizione.

«O mio Dio, io mi rammento quelle tenebre dove noi eravamo/ faccia a faccia, quel buio pomeriggio d’inverno a Notre-Dame,/ Io tutto solo, tutto in basso, illuminavo la faccia del grande Cristo/ di bronzo con una candela da venticinque centesimi./ Tutti gli uomini allora erano contro di noi – e io non rispondevo/ niente – la scienza, la ragione./ La fede solo era in me, e io vi guardavo in silenzio/ come un uomo che preferisce il suo amico» (Cinque Grandi Odi).

Seguace cristiano di Rimbaud o “gorilla cattolico”?

Nei suoi drammi teatrali Claudel ha approfondito la necessità per la città moderna di fondarsi sulla fede in Dio (La Ville), la conquista cristiana delle Americhe (Le Livre de Christophe Colomb), gli eventi della vita amorosa, anche come infedeltà, alla luce del Destino (Partage de Midi), la tragedia del laicismo napoleonico (L’Otage), la Spagna del siglo de oro (Le soulier de satin). Ciò sembrò davvero troppo alle sentinelle dell’iconoclastia del Novecento, ai mistici moralisti seguaci di un’evanescente religione che ripugna la carne perché bella e perché debole, ai Renan, per cui «la scoperta dell’infinito ha distrutto le idee ebraiche e cristiane», ai cani da guardia del mondo che dovevano processare Dio e i preti, a tutti gli intellettuali che, mentre insegnavano la direzione anticristiana della storia, fornivano gli oppiacei alla belle époque per cercare di sopravvivere alla tragedia e alla tristezza incipienti. Anche in Italia si levarono voci preoccupate per tale “gorilla cattolico”, secondo la definizione di Cludel data da Georges Sorel. E non furono interventi da poco, se valutiamo il peso che nel 1918 aveva un Benedetto Croce che si esprimeva in questo modo: «Quando si è, per disgrazia, nelle condizioni psichiche di un Claudel, non si deve ricorrere alla letteratura… Il teatro del Claudel, con tutte le sue pretese di profondità filosofica e di poesia sublime, è un delirio neuropatico; e quando mai il delirio e la patologia sono stati poesia?… La forma dei drammi di Claudel è informe…Questo parlare è falso in se stesso, come lirica che vuol essere. E così sono tutti i suoi Tête d’or, e Jeunne fille Violaine, e La Ville, e Partage de Midi, e Otage, con le loro creature di dedizione e sacrificio, eroico-stupide, o con le creature amanti, eroico-delittuose: tutte maniache, cantate da un maniaco». La mania di Claudel, quella di cantare l’Assoluto, si confrontava dunque con tale violenta repulsione da parte del mondo. Talora la comprendeva in modo universale – e forse maggiormente convincente: nel dramma La Jeune Fille Violaine, che fu la prima stesura del successivo L’Annonce faite à Marie, Mara esprime il rapporto tra l’indifferenza del mondo e la presenza di Dio con le parole:

«Perché Dio non resta a casa sua e viene qui a disturbarci? La nostra infelice vita è così/ breve! Che ce la lasci almeno tranquilla!». Altre volte anche Claudel riprendeva la vena maudit, esprimendo se stesso e la propria formazione culturale come violenza: «E che cosa di più violento che l’idea ritrovata della gioia divina nel mezzo di questo mondo di morti!».

La galera della Belle époque e il simbolismo

In tale clima di gaia mestizia laicista Claudel era cresciuto, studiando al Liceo Louis-le-Grand di Parigi, nel quale egli da incerto era diventato ateo, percependo peraltro tutta la noia e la tristezza del determinismo positivistico e la profonda insipienza del suo professor Bordeau, fanatico di una morale da imperativo kantiano “impossibile a digerirsi”. «Per rendersi conto dell’ambiente liceale in cui vivevo, occorrerebbe leggere qualche testo: quello del discorso di Renan alla distribuzione dei premi del 1882, quello di Taine che compara l’Universo allo sviluppo d’una formula matematica, Renan e il suo Avvenire della Scienza, Berthelot che afferma che il mondo non ha più alcun mistero per noi, Kant che dice che nel mondo tutto è illusione eccetto non so quale legge morale, orrendo idolo inaccettabile per un Latino. Occorrerebbe ricreare l’atmosfera degli anni attorno al 1880, con i loro orribili romanzi naturalisti, e mostrare ciò contro cui mi sono disperatamente rivoltato». È con questo atteggiamento di rivolta verso il pensiero degli intellettuali che costringono l’esistenza dell’uomo a vivere nel carcere dell’insignificanza, insieme alla riconoscenza totale per l’improvviso sorgere della Grazia, che Claudel ha convissuto lungo tutta la vita.

«E certo noi amiamo Gesù Cristo, ma niente al mondo ci farà amare la morale./ Non mi mandate in rovina con i Voltaire, e i Renan, e i Michelet, e gli Hugo, e tutti gli altri infami!/ La loro anima è con i cani morti, i loro libri sono uniti al letame/ Sono morti, e il loro nome stesso dopo la loro morte è veleno e marciume» (Cinque Grandi Odi).

Quali elementi del naturalismo francese degli Zola e dei Goncourt hanno tanto disgustato la generazione dei giovani di fine ‘800? Pur nella loro capacità, i naturalisti intendevano tradurre in ambito letterario quelle metodologie positiviste e scientifiche per le quali tutto è conoscibile e limitato. Agli entusiasti positivisti di ieri – tronfi e sprezzanti – e a quelli stanchi di oggi – analitici e insensati – manca sempre la teoria e la pratica della totalità, cui con slancio la giovinezza aspira, quella totalità che faceva gridare a Rimbaud «è giunta l’ora che i cuori s’infiammino». Giustamente Giovanni Colombo ha scritto perciò che «il romanzo verista studiava la società umana come si studierebbe una repubblica di formiche; con il gusto di oltraggiare ogni ideale per ridurre al ventre i problemi dell’individuo, e a vaste cucine economiche quelli della società». Al carcere positivista Claudel preferì il lebbrosario della protagonista de L’Annuncio a Maria, Violaine, che con estrema idea di totalità, dice:

« E io pure l’ho conosciuta la gioia or sono otto anni, e il mio cuore ne era rapito,/ tanto, che domandai follemente a Dio, ah! ch’essa durasse e non cessasse mai!/ E Dio m’ha stranamente esaudita! Guarirà forse la mia lebbra? No, finché vi sarà una/ particella di carne mortale da divorare./ E forse guarirà nel mio cuore l’amore? Mai, finché vi sarà un’anima immortale per fornirgli/ l’alimento» (atto III, scena III).

Perciò Claudel, «un testardo, un muto che non usciva dal suo mutismo se non per osare contestare il professor Bordeau», ha percepito come una liberazione il movimento simbolista, di cui ha inteso sottolineare soprattutto le implicazioni logiche antipositiviste. «L’indagine logica ci dice che non possiamo definire una cosa, ch’essa non esiste in sé che nei lineamenti per cui differisce da tutte le altre. Nessuna cosa è di per se stessa completa e non può completarsi che con quello che le manca. Ma ciò che manca a ogni particolare cosa è infinito; non possiamo sapere in precedenza quale complemento richieda». Il poeta cominciò a frequentare i “martedì” nella casa di rue de Rome di Stéphane Mallarmé, insieme a Gustave Kahn, Jules Laforgue, André Gide, Paul Valery e altri. Come detto, abbandonato il “bagno materialistico” del positivismo naturalista e ateo, ripudiato lo stato «d’asfissia e di disperazione» dei «tristi anni ottanta» francesi, Paul Claudel approdò, attraversando la salutare lezione del simbolismo e soprattutto le opere di Arthur Rimbaud che gli diedero «l’impressione viva e quasi fisica del soprannaturale», alla fede cattolica. Fu questa, in Francia, la via artistica, letteraria e filosofica seguita da numerosi scrittori del tempo, sebbene il compiuto «ritrovamento della Legge» cristiana assunse in molti lineamenti tormentati, imprecisi e spesso morbosi e, in senso estetizzante, decadente. In altre esperienze, poi, tale percorso giunse, semplicemente, all’irrazionalismo. «Ho letto gli Scritti postumi di Baudelaire, e ho visto che un poeta che io già preferivo a tutti i francesi aveva trovato la fede negli ultimi anni della vita e si era dibattuto nelle medesime mie angosce e nei miei medesimi rimorsi». L’esperienza simbolista, col suo tendere a mettere in relazione oggetti, sensazioni, idee lontane e frammentate, con le sue continue allusioni e la sua ricerca di analogia, appartiene a quel genere di cose che necessitano di una precisa metafisica per essere indirizzate. Il simbolismo fu in grado di scoprire un nuovo linguaggio, restituendo agli oggetti della vita moderna la carica di senso (e di insensatezza) che ogni civiltà possiede, e di percepire (non solo pensare) di nuovo la realtà nella sua relazione con l’infinito, sia pur attraverso non poche contraddizioni e fratture, superate da chi si accorse che «il simbolo appropriato e perfetto è l’oggetto naturale», come ha detto Ezra Pound. Tuttavia vi fu anche chi accentuò del simbolismo la carica eversiva fine a se stessa, l’aspetto sognante e irrazionale, il moto eretico anticristiano e l’irregolarità come condizione di gioco. Non stupisce quindi che le diverse anime del movimento poetico moderno venissero a contrasto, la qual cosa appare inevitabile se pensiamo al cattolico-ambasciatore-poeta Claudel e agli eterni sognatori quali i surrealisti. Questi si rivolgono nel 1925 così al poeta che li aveva assimilati a dei pederasti di comodo: «Noi ci auguriamo, con tutte le nostre forze, che le rivoluzioni, le guerre e le insurrezioni coloniali vengano ad annientare questa civiltà occidentale di cui voi difendete fino in Oriente il marciume… È da un pezzo che l’idea di bellezza si è impigrita. Resta in piedi soltanto un’idea morale, e cioè per esempio che non si può essere al tempo stesso ambasciatore di Francia e poeta. La salvezza per noi non si trova da nessuna parte. Noi riteniamo Rimbaud un uomo che ha disperato della sua salvezza e di cui l’opera e la vita sono pure testimonianze di perdizione». Ciò che distingue Claudel da loro è la metafisica cristiana che gli permette maggiore precisione di sguardo, in modo che il simbolismo non ruoti su un io profondo opposto a un mondo apparente, ma apra poeticamente a un’altra conoscenza: «Se l’arte moderna è così vana è per due ragioni: la prima perché non ha senso: avendo cessato d’avere altro fine che se stessa è ridotta a una specie di danza e di parata; la seconda perché è incompleta trascurando la parte più importante dell’universo, quella che spiega l’altra e che la fede ci rivela; perciò la grande poesia composta e architettonica dei tempi antichi si è polverizzata in una quantità di minute impressioni e interiezioni. La poesia per albergare l’umanità ha bisogno d’altro che di fantasia: ha bisogno della verità». Il poeta Piero Jahier, riprende in questo modo alcune osservazioni di Claudel: «La nuova Arte poetica dell’Universo è una nuova logica. L’antica aveva per organo il sillogismo; questa ha la metafora, la nuova parola, l’operazione che risulta dalla sola esistenza congiunta e simultanea di due cose differenti… Ogni creatura ha quindi un senso, un suo compito, una sua parte da rappresentare nel gran dramma dell’universo… Al disopra delle cose che accadono sono cosciente di questa parte confidata al mio personaggio dell’intenzione totale». È la concezione che Claudel ha tradotto con versi piani e incredibili nel prologo de L’Annuncio a Maria:

«Pietro di Craon – Non alla pietra tocca fissare il suo posto, ma al Maestro dell’Opera che l’ha scelta.

Violaine – Lodato sia dunque Iddio che mi ha segnato sùbito il mio, e io non ho da cercarlo. E altro posto non chiedo a lui. Sono Violaine, ho diciott’anni, mio padre si chiama Anna Vercors, e mia madre Elisabetta. Mia sorella si chiama Mara, il mio fidanzato Giacomo. Questo è tutto, ecco; non c’è altro da conoscere. Tutto è chiaro all’evidenza, tutto è prestabilito, e io sono contentissima. Sono libera, non ho da preoccuparmi di nulla, ed è lui che mi guida, pover’uomo, lui che sa quel che bisogna fare».

A questa vera semplicità nella tranquillità dell’esistenza deve corrisponderne altrettanta nella brutalità della storia che porta altrove. La bufera investe i personaggi nel loro disegno per verificarne la corrispondenza col disegno totale, e ne investe le parole, la prosa, le immagini, tutto. Al termine della vicenda della vita e della storia, dopo un percorso fatto di tante umane tragedie, la motivazione della vita si fa più pura:

«Violaine – Com’è bello vivere! (a voce bassa, con intenso fervore) e com’è immensa la gloria di Dio!

Giacomo Hury – Vivi dunque, e resta con noi.

Violaine – Ma che buona cosa anche morire! Quando è proprio la fine, e su di noi a poco a poco scende il buio come un’ombra scurissima» (atto IV, scena III).

La Francia della terza repubblica e Montevergine

Montevergine è il monastero che ne L’Annunzio a Maria fa da sfondo a tutta la vicenda e ne ricorda continuamente il significato. Esso può sostenersi grazie al lavoro degli uomini che da generazioni lo aiutano gratuitamente; a quegli uomini il monastero nella sua fissità non dona niente di meno che il senso del loro lavoro. Il suo lento declino e la sua irreversibile fine vengono commentati con alcune terribili parole:

«Anna Vercors – Montevergine è morto, e il frutto del tuo lavoro è tutto tuo.

Giacomo Hury – È vero» (atto IV, scena V).

Giacomo Hury è nel dramma claudeliano l’uomo in cui la praticità diviene rozzezza e bolsaggine. Mentre tutta l’opera di Claudel cerca di ricondurre di nuovo anche la laboriosità al suo scopo ultimo, l’uomo “moderno” vive in funzione del frutto del proprio lavoro. È questa l’aspirazione del pensiero utilitaristico di Jeremy Bentham, seguire una morale del piacere e della razionalità, con la progressiva eliminazione di tutte le contraddizioni non sanabili e di tutte le idee eccessive e astratte. La radice illuminista di tale concezione si concentra soprattutto sulla religione. Questa deve sì sopravvivere, ma nei limiti dell’umana ragione; il che significa che dedizione alla verginità, celibato dei preti, elemosina, carità, eucarestia, fedeltà coniugale, perdono sacramentale, autorità, dogmi e peccato originale devono sparire. La religione e il mondo devono essere puri, tanto puri da sembrar quasi nulla. È questa la vera eresia che soggiace il pensiero laicista moderno e non meraviglia che per un poeta come Claudel, per il quale il cristianesimo deve confrontarsi col mondo di adesso, in modo diretto o indiretto, un’opera cristiana quale L’Annuncio a Maria dovesse rappresentare anche una confutazione di tali opinioni. Del resto egli aveva vissuto in prima persona le follie politiche legate alla eliminazione delle tracce cristiane nella società. Non bisogna credere che ai primi del XX secolo la rivolta anticristiana fosse prerogativa di giovani ribelli che ripudiavano l’identificazione tra il potere borghese e la Chiesa cattolica. È vero proprio il contrario, se consideriamo la triste vicenda del ministero di Èmile Combes. Questi, dopo che il “Bloc républicain” aveva vinto le elezioni del 1902, venne scelto dal socialista Jean Jeaurès come presidente del consiglio in virtù delle sue massoniche idee di persecuzione della chiesa cattolica, accusata strumentalmente anche per la sua posizione sul caso Dreyfus. In quegli anni il governo francese soppresse le congregazioni religiose, ruppe le relazioni diplomatiche con la Santa Sede, chiuse 3500 scuole cattoliche, fronteggiò con la forza rivolte popolari in favore della chiesa, utilizzò la morte di Émile Zola, il 29 settembre 1902, per una grande parata laicista. «Ricordo il nefasto periodo che va dal 1890 al 1910, periodo che coincide con la mia gioventù e la mia virilità, periodo di materialismo e di scetticismo aggressivo e trionfante, dominato dalla figura di Ernest Renan. Quanti sforzi allora per offuscare la divinità di Cristo, per velare quel sembiante insostenibile…» ci ricorda ancora Claudel.

La Voce, l’amore e la giustizia

Uno spaccato interessantissimo dell’agone culturale italiano dei primi anni del Novecento è quello legato al contrastato esordio della fama di Claudel in Italia. Esso avvenne in partibus infidelibus , dal momento che fu La Voce di Giuseppe Prezzolini e di Giovanni Papini a occuparsene sostanzialmente per prima. A dire il vero in Italia vi fu una significativa premessa della difficoltà ad accogliere tout court l’opera claudeliana. Poiché una compagnia francese intendeva portare in Italia L’Ostaggio di Claudel, Papa Benedetto XV, in una lettera rimasta inedita sino al 1933, ma scritta nel novembre del 1911 e inviata all’influente barone Carlo Monti, così scriveva: «Ti restituisco L’Otage, che mi hai favorito; mi è bastato la lettura della lunga scena in cui si fa comparire Pio VII per convincermi che non conviene consentire alla rappresentazione del dramma di Paul Claudel. Dall’altra parte ne è impossibile la riduzione, perché il titolo stesso esige che si faccia vedere la persona tenuta in ostaggio. Dunque procura che la cosa cada e farai opera buona». E due giorni dopo: «Grazie per la notizia dell’Otage». La figura di un Papa, Pio VII, esule, nascosto, braccato e perseguitato da Napoleone e dai francesi indusse Benedetto XV, viste le relazioni con tale paese, a intervenire così come fece. E de L’Ostaggio di Claudel non se ne fece, per allora, alcuna rappresentazione italiana. Un anno dopo, nel numero dell’11 aprile 1912 della Voce, il poeta Piero Jahier, ventottenne, cristiano valdese e collaboratore del settimanale fiorentino, pubblicò un lungo articolo sul poeta francese nel quale dice che «quest’uomo ha qualcosa da dire alla nostra generazione», a «noi tutti artisti, scrittori di bozzetti, titolari della forma», perché Claudel lo aveva obbligato «a un esame di coscienza affrontandomi come l’angelo di Giacobbe e non dandomi posa». Le reazioni sul medesimo settimanale non si fecero attendere. Con un articolo di Ardengo Soffici, dai toni preoccupati per le prese di posizione entusiastiche o positive su Claudel che a partire da Jahier stavano nascendo nel nostro Paese, scoppiava il “caso Claudel”. La cosa non sembra strana, dal momento che La Voce rappresenta per l’Italia il tentativo di portare a tutti l’idea culturale centrale del pensiero moderno. Come ripeteva sulla rivista Prezzolini «noi non siamo contenti di dichiarare che Dio è morto per i filosofi. Quando Dio non esisterà più per nessuno, allora sarà ritrovato». Il punto dello scandalo-Claudel può dunque ben essere compreso se consideriamo le parole di Soffici: «Può darsi che la tragedia, la cui origine è – ricordiamolo – religiosa, non abbia più ragion d’essere in un’epoca che non ha più religione – come la Messa sembrerà assai inutile una volta spento del tutto il cristianesimo. Ma, e con questo?». Concludeva Giovanni Papini, in un articolo su Claudel e i cattolici francesi del 9 gennaio 1913, dal titolo “Puzza di cristianucci”: «Codesta letteratura, insomma, non è per tutti – è una letteratura per gli adulti, per i credenti… I veri cattolici che voglion davvero la pace e ci tengono a star dentro la comunità dei fedeli, vanno alla messa, si confessano, ascoltano le prediche e stanno zitti». La modernità: dirà ancora a tale proposito Antonio Gramsci: «Tutti hanno la vaga intuizione che, facendo del cattolicesimo una norma di vita, sbagliano, tanto è vero che nessuno si attiene al cattolicesimo come norma di vita, pur dichiarandosi cattolico. Un cattolico integrale, che cioè applicasse in ogni atto della vita le norme cattoliche, sembrerebbe un mostro, ciò che è, a ben pensarci, la critica più rigorosa del cattolicesimo stesso e la più perentoria». A cent’anni di distanza da tutte queste parole, si può affermare che Claudel ne L’Annuncio a Maria ha compiuto un miracolo analogo a quello della scena III dell’atto III, di non sottrarsi per nulla alla totalità del pensiero cristiano e di mostrare che il cristianesimo di conseguenza sa ancora essere attuale e tragico (per dirla con il Soffici). Certo, è un miracolo solo letterario, ma ciò ne aumenta in un certo senso il merito. Per Claudel il bisogno della verità significa anzitutto indagine, intesa principalmente come conoscenza del reale. Di qui per lui deriva anche la necessità del teatro: «Quel che io rimprovero soprattutto a Proust è codesta pratica della continua introspezione. Questa del rimirarsi è un’igiene deplorevole. Guardandosi, ci si sfalsa, si fabbrica una specie d’individuo artificiale che sostituisce la persona nella sua naturalezza e attività. Il vero se stesso è rivelato dalle circostanze; e per questo il dramma possiede una verità assai superiore a quella del romanzo; perché pone l’azione al primo posto, e i personaggi non sono che le funzioni di quest’azione che li suscita». La conoscenza avviene ne L’Annuncio a Maria soprattutto a proposito delle idee di amore e di giustizia, veri motori del dramma. L’amore fa da sfondo a quasi tutti i dialoghi di quest’opera ambientata in un “medioevo convenzionale”. Scrive Luigi Giussani nella sua suggestiva e precisa Lettura del testo: «La modalità di vita della gioventù di oggi mostra la propria inconsistenza etica: la tenerezza è esattamente un’emozione reattiva, mentre l’amore no. Il tema de L’annuncio a Maria è l’amore creativo della totalità: nella persona infatti può esserci la coscienza della realtà totale, dell’universo». Claudel crea un contesto credibile di amore come totalità e non solo come emozione e passione – quale la letteratura occidentale va ripetendo da troppo tempo-, e di tale relazione assoluta indaga e esprime le infinite sfaccettature. Si veda ad esempio il dialogo iniziale tra Pietro di Craon e Violaine, cui egli ha tentato di far violenza:

«Pietro di Craon – O piccola anima, era forse possibile ch’io vi vedessi senza volervi bene?

Violaine – E certo l’avete mostrato che mi volete bene.

Pietro di Craon – È forse mia colpa se il frutto aderisce al ramo? E chi è quegli che, amando, non vuol aver tutto ciò che ama?

Violaine – Per questo avete cercato di distruggermi? […]

Pietro di Craon – Un altro mi toglie Violaine, e mi lascia questa carne infetta e lo spirito devastato.

Violaine – Siate uomo, Pietro. Siate degno della fiamma che vi consuma. E se bisogna essere divorati, sia ciò su un candelabro d’oro come il Cero Pasquale in mezzo al coro per la gloria di tutta la Chiesa» (prologo).

L’amore è presentato poi come “essere per il disegno totale” nel dialogo tra i due anziani sposi; mentre il marito, Anna Vercors, chiede alla moglie di andare a Gerusalemme e di non essere trattenuto, lei lo tiene e lo vuole per sé:

«La Madre – Chi ti chiama lungi da noi?

Anna Vercors – Un angelo che suona la tromba. […]

La Madre – Gerusalemme è tanto lontana!

Anna Vercors –Il paradiso è più lontano.

La Madre –Dio nel tabernacolo l’abbiamo qui anche noi.

Anna Vercors –Ma non quella gran buca nella terra.

La Madre –Quale buca?

Anna Vercors – Quella che fece la Croce quando fu innalzata. Tutto vi converge. Là è il punto che non può essere spostato, il nodo che non può essere sciolto, il patrimonio comune, la pietra miliare che non può essere strappata, il centro e l’ombelico della terra, il cuore dell’umanità nel qual tutto si regge. […]

La Madre – Chi sa se non avremo bisogno di te?

Anna Vercors –Chi sa se altrove non hanno bisogno di me? Tutto è sottosopra, e chi sa se io non turbo l’ordine di Dio restando a questo posto dove il bisogno che s’aveva di me è cessato?

La Madre –So che sei inflessibile.

Anna Vercors , teneramente, cambiando tono di voce – Tu sei sempre giovane e bella per me, e grande è l’amore ch’io sento per la mia dolce Elisabetta dai capelli neri.

La Madre –Son grigi i miei capelli.

Anna Vercors –Dimmi di sì, Elisabetta.

La Madre –Anna, tu non mi hai lasciata mai in questi trent’anni. Che sarà di me, priva del mio capo e del mio compagno?

Anna Vercors – … Quel sì che ci separa, in quest’ora, dillo piano piano, ma così pieno come quello che, allora, ha fatto di noi un essere solo. (silenzio)

La Madre, a voce bassa – Sì, Anna» (atto I, scena I).

L’amore ancora viene indagato nel rapporto tra possesso e intangibilità nel dialogo tra i due fidanzati della scena III atto II, tra il “buon lavoratore” e la sua promessa sposa, tra colui che si concepisce come giusto e la ragazza che, nella vastità del mondo, scopre la propria piccolezza creaturale. Si introduce, in questo dialogo, anche l’altro grande tema del dramma, quello della giustizia. Come l’amore, poeticamente, corrisponde alla grande struttura metafisica della realtà, così la giustizia ne rappresenta il percorso etico. E come del primo emerge la necessità verginale del “noli me tangere”, unica via di affermazione dell’altro nel suo essere, così del secondo si indaga la meschinità di un’etica kantiana sulla quale il Novecento ha compiuto una scommessa perduta.

«Giacomo Hury – Non bisogna chiedermi di capire ciò che è più su di me, e perché quelle sante donne si son chiuse vive lassù, in quella piccionaia. Agli spiriti il cielo, e la terra agli umani. Ché senza la fatica del buon lavoratore non danno grano i campi. E questo, senza vantarmi, posso dire che io faccio, e nessuno m’insegnerà mai nulla, forse nemmeno vostro padre, d’altro tempo, lui, e fisso nelle sue idee. A ciascuno il suo posto: questa è giustizia. Vostro padre dandovi a me, e in una Montevergine, ha saputo quel che faceva, ed era secondo giustizia.

Violaine – Ma io, Giacomo, non vi amo già perché così è giusto. E non lo fosse, vi amerei lo stesso e di più.

Giacomo Hury – Non vi comprendo, Violaine.

Violaine – Giacomo, non costringetemi a parlare. Voi mi volete tanto bene, e io non posso farvi che male. Lasciatemi. Non può trattarsi di giustizia fra noi due; ma di fede, di fede soltanto e carità. Allontanatevi da me, mentre è ancora tempo.

Giacomo Hury – Non comprendo, Violaine (atto II, scena III). […]

Giacomo Hury – E faccenda mia è di far giustizia.

Violaine – Ma smettila con la tua giustizia.

Giacomo Hury – So quel che mi resta da fare.

Violaine – Tu non sai nulla di nulla, povero uomo; tu non capisci le donne, né sai come son meschine e stupide e dure di testa, fisse in una sola cosa. Non imbrogliar tutto con lei come hai fatto con me. E poi, chi dice che fosse la sua mano? Io non ne so nulla. E tu nemmeno. E a che serve saperlo? Custodisci quel che hai. Perdona. Tu, forse non hai mai avuto bisogno di perdono?» (atto IV, scena III).

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