Quel brav’uomo di Mugabe

Di Rodolfo Casadei
07 Marzo 2002
Scatena le brigate giovanili del suo partito contro gli oppositori, perseguita il candidato avversario, egemonizza i media, respinge gli osservatori internazionali. Ma per i governi africani - gli stessi che chiedono la remissione del debito estero e “compensazioni” per la tratta schiavista - non ci sono ragioni per punire il despota dello Zimbabwe e dubitare che le elezioni presidenziali del 9-10 marzo saranno libere. Così al summit del Common-Wealth di Rodolfo Casadei

Tony Blair c’è rimasto proprio male: il sontuoso summit annuale dei governi dei 54 paesi membri del Commonwealth, ospitati per l’occasione nella ridente località australiana di Coolum, s’è chiuso senza che venisse assunta alcuna misura punitiva nei confronti dello Zimbabwe del dispotico presidente Robert Mugabe, impegnatissimo ad organizzare brogli e intimidazioni su larga scala per guadagnarsi l’ennesima vittoria in un’elezione presidenziale. Secondo i ministri e capi di Stato africani la situazione non è poi così grave. Theo Ben Gurirab, ministro degli Esteri della Namibia, è convinto che il presidente dello Zimbabwe sia vittima di pregiudizi: «Certa gente s’è già fatta l’idea che Mugabe abbia truccato le elezioni di sabato prossimo, e ha intenzione di punirlo». Sono contrari alla sospensione dello Zimbabwe dal Commonwealth non solo storici alleati di Mugabe come la Tanzania e il Mozambico (il presidente Joaquim Chissano è stato testimone del 78enne Mugabe alle sue seconde nozze nel 1996), ma anche leader filo-occidentali come l’ugandese Yoweri Museveni («sarebbe una mossa avventata») e il ghanese John Kufuor («è un passo troppo radicale»), oltre al Sudafrica post-apartheid, che pure ha avuto più di una frizione con l’ex Rhodesia.

Oppositori frustati col filo spinato

«Non è compito nostro versare olio sul fuoco», avrebbe poi dichiarato il presidente nigeriano Olusegun Obasanjo, già membro del direttivo di Transparency International, che si era fatto notare nelle settimane precedenti per i suoi interventi in difesa del controversissimo processo elettorale zimbabweano: «Quali sono i princìpi democratici che Mugabe sta apertamente violando? Ha indetto elezioni e permette ad altri partiti di parteciparvi liberamente. Ha chiesto ad osservatori di tutto il mondo di intervenire, come pure alla stampa estera. Ha collaborato con altri partiti politici, la società civile e i leader religiosi per ridurre il livello della violenza». Questa idilliaca ricostruzione degli avvenimenti fa a pugni con la realtà. Mugabe ha vinto le elezioni legislative del 2000 attraverso provvedimenti liberticidi, brogli e intimidazioni, e oggi sta facendo lo stesso. Decine di migliaia di giovani miliziani del suo partito, soprannominati i terror teens (“adolescenti per il terrore”) passano casa per casa, soprattutto nelle aree rurali, intimando ai residenti di non partecipare ai comizi di Morgan Tsvangirai, il candidato presidenziale dell’opposizione; organizzano posti di blocco e minacciano o picchiano tutti coloro che non sono in grado di mostrare una tessera di appartenenza alla Zanu, il partito di governo: quanti sono sospettati di simpatizzare con l’opposizione vengono appesi a un ramo per le braccia e frustati su schiena e natiche con filo spinato. Le vittime designate sono soprattutto insegnanti, infermieri e quanti vengono sorpresi a leggere il Daily News o la Financial Gazette (i due giornali ostili al presidente): tutti costoro sono considerati a priori simpatizzanti dell’Mdc (il partito dell’ex sindacalista Tsvangirai). Scuole e ambulatori hanno dovuto chiudere i battenti perché parte del personale ha cercato rifugio nelle città, dove i residenti simpatizzano in grande maggioranza per l’Mdc. I bastonati sono ormai migliaia, i morti per le violenze della campagna elettorale un centinaio, quasi tutti appartenenti all’opposizione e uccisi a colpi di spranghe e di catene. I miliziani di Mugabe sono coperti da immunità, la polizia ha istruzioni di non arrestarli. Nelle passate campagne elettorali, del resto, le amnistie hanno puntualmente liberato quelli che erano finiti dietro le sbarre per le violenze commesse.

Vietato apostrofare il Presidente

Mugabe controlla tutte le radio e le tivù del paese (che pubblicizzano ininterrottamente le sue “donazioni” di farina di mais ai contadini in difficoltà e la montatura di un presunto complotto del candidato dell’opposizione contro la vita del Presidente), lascia entrare nel paese solo rappresentanti graditi della stampa estera (per esempio la Itn britannica sì, ma la Bbc no) e sta cercando di mettere in ginocchio le testate indipendenti locali con una legge che condiziona l’esercizio della professione giornalistica al rilascio di una licenza che viene rinnovata annualmente solo a chi non ha violato un “codice di condotta” estremamente rigido. Un’altra legge, il Public Order and Security Act, proibisce di «minare l’autorità del Presidente», di «generare ostilità nei suoi confronti» e di fare dichiarazioni offensive od oscene sul suo conto. Ne deriva che Tsvangirai deve fare molta attenzione alle parole con cui critica Mugabe (che lo ha già fatto arrestare una dozzina di volta negli ultimi tre anni), mentre il presidente uscente può tranquillamente definire il suo avversario «sabotatore», «terrorista», «marionetta nelle mani dei colonialisti» e altre piacevolezze. A tutt’oggi 69 comizi di Tsvangirai sono stati vietati dalla polizia o sospesi per disordini causati da militanti della Zanu. Non è neanche vero che gli osservatori stranieri sono benvenuti: Mugabe ha respinto quelli dell’Istituto Carter e causato il ritiro di quelli della Ue, avendo espulso il capodelegazione svedese Pierre Schori in quanto esponente di un “paese ostile”. Per queste ragioni Ue e Usa hanno comminato sanzioni a 19 esponenti del governo dello Zimbabwe: rifiuto del visto e congelamento dei loro beni all’estero. I paesi africani hanno criticato pure questo circoscritto provvedimento, che il ministro degli Esteri sudafricano Aziz Pahad ha definito «difficile da comprendere». Come tutti gli esponenti africani sopra citati, al tempo dell’apartheid invocava sanzioni globali contro il regime di Pretoria. Che facce toste, per non dire di peggio.

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