
Tutte le balle di Bin Laden
«…ciò che ora assaggia l’America è solo una copia di ciò che abbiamo assaggiato noi. La nostra nazione islamica ha assaggiato le stesse cose per oltre 80 anni, umiliazioni e disgrazie, i suoi figli uccisi e il loro sangue versato, i suoi luoghi santi dissacrati». La propaganda in tempo di guerra si fa con le menzogne più abbondantemente che in tempo di pace, e il proclama di Bin Laden non fa eccezione. Che gli Stati Uniti e l’Occidente siano da ottant’anni i nemici giurati dei popoli musulmani e in particolare di quelli arabi è vero solo nella testa degli ideologi del radicalismo islamico e degli ingenui che, in Oriente come in Occidente, si lasciano abbindolare dalla loro propaganda. Un conto, infatti, sono i proclami, un altro i fatti. Le due più grandi operazioni militari internazionali degli anni Novanta sono quelle attuate dalle forze della Nato, sotto la guida degli Usa, in Bosnia e Kosovo per impedire il massacro delle locali popolazioni musulmane da parte dei serbi di Milosevic, autoproclamati difensori del cristianesimo nei Balcani. I musulmani di Bosnia e Kosovo sono stati anche destinatari di una massa enorme di aiuti umanitari da parte dei governi e dei privati europei.
Musulmani trattati coi guanti
Del trattamento ricevuto dall’Occidente non possono lamentarsi i musulmani di Turchia, associati alla Nato nonostante il milione e passa di cristiani armeni massacrati all’inizio del secolo; anzi: nel 1974 la Nato non ha fatto una piega quando i turchi hanno occupato la parte nord di Cipro, paese tradizionalmente di egemonia greca e cristiana.
Stesso discorso per i musulmani dell’Indonesia, il più popoloso fra i paesi musulmani: la vittoria americana sui giapponesi, che avevano occupato le isole sottraendole all’Olanda, ha gettato le basi dell’indipendenza; gli americani hanno poi appoggiato la repressione del generale Suharto e dei partiti musulmani contro i comunisti (almeno 500mila morti), lasciato occupare nel 1975 la colonia portoghese di Timor est, dove 200mila cristiani e praticanti delle religioni tradizionali sono morti a causa della repressione nel 1975-78, e massacrare altri 30mila nel 1999 in occasione del referendum per l’indipendenza.
Del trattamento ricevuto dall’Occidente non possono poi certamente lamentarsi né i pakistani, né gli afghani: gli Usa hanno sempre simpatizzato col Pakistan nelle sue diatribe di confine con l’India (che infatti è rimasta filosovietica fino al 1991), e hanno appoggiato con grandi somme di denaro e grandi quantità di armamenti la lotta dei mujaheddin afghani e dei loro alleati pakistani contro i sovietici che avevano occupato l’Afghanistan dal 1979 fino al 1989. Lo stesso regime talebano è potuto crescere grazie alla benevolenza Usa, che ha lasciato fare all’alleato pakistano (i talebani sono, dal punto di vista politico-militare, una creazione dei servizi segreti pakistani). Davvero solo l’ingratitudine e il fanatismo spiegano l’odierno antiamericanismo di una parte dei pakistani.
Ma anche gli arabi non possono in nessun modo protestare un’ostilità preconcetta degli occidentali: se due sovrani arabi poterono tornare dopo secoli di egemonia ottomana sui troni di due entità politiche, ciò avvenne grazie agli inglesi. La dinastia hascemita, discendente di Maometto e titolare dello sceriffato della Mecca prima di essere scacciati da là e dal resto dell’Arabia da parte dei sauditi, potè portare due monarchi sui troni di Amman (in Transgiordania, poi Giordania dopo la creazione dello stato di Israele) e Baghdad (il futuro Irak, dove la monarchia fu poi rovesciata dai militari) grazie all’azione di Lawrence d’Arabia, agente segreto di Sua maestà britannica.
In tempi più recenti gli Stati Uniti, amici di Israele ma sensibili ai temi geopolitici generali, hanno obbligato israeliani, britannici e francesi a ritirarsi dal canale di Suez che avevano occupato con un blitz quando il presidente egiziano Nasser ne aveva deciso la nazionalizzazione (1956).
Gli Stati Uniti (ma anche la Francia e l’Unione Sovietica) hanno aiutato con forniture di armamenti per milioni di dollari lo sforzo militare dell’Irak arabo e musulmano sunnita di Saddam Hussein contro la Repubblica islamica iraniana dell’ayatollah sciita Komeini fra il 1980 e il 1988. E solo alla fine degli anni Ottanta, quando a Khartum è andato al potere un governo militar-islamico fondamentalista e amico dei terroristi, hanno preso ad aiutare con forniture di armi i ribelli cristiani anti-arabi del Sudan meridionale, fino a quel momento appoggiati piuttosto dai comunisti etiopici e cubani, non certo dall’Occidente.
Palestinesi e bambini irakeni, solo pretesti
Nel suo videomessaggio Bin Laden agita anche – e non poteva essere diversamente – le bandiere della sofferenza dei bambini irakeni sotto l’embargo e dell’oppressione israeliana contro i palestinesi. L’ascoltatore occidentale ha l’impressione che la fine dell’embargo, l’evacuazione delle truppe Usa in Arabia Saudita e la soluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese porrebbero fine alla crisi attuale. Niente di più lontano dalla realtà: Bin Laden sposa la causa della fine dell’embargo irakeno solo perché nell’Irak ha trovato un alleato tattico per il suo progetto di abbattere la monarchia saudita e creare nel Golfo Persico una superpotenza petrolifera araba anti-americana. Ma nel 1991 si era offerto di combattere, lui coi suoi volontari, in difesa dell’Arabia Saudita minacciata da Saddam Hussein che aveva occupato il Kuwait; la sua rottura coi sauditi riguardò la chiamata delle truppe Usa, che lui non accettava per ragioni religiose, e non la legittimità di contrapporsi all’Irak. Se Saddam Hussein fosse riuscito nel suo disegno di sottomettere Kuwait e Arabia Saudita, Bin Laden e i suoi uomini sarebbero finiti al muro come tutti gli oppositori “religiosi” del rais. Bin Laden lo sa, come sa che l’alta mortalità fra i bambini irakeni è colpa dell’embargo almeno tanto quanto la crudeltà di Saddam Hussein, che coi milioni di dollari del petrolio di contrabbando che vende ai paesi vicini e dal 1997 con lo schema Onu “petrolio in cambio di cibo” ha sempre avuto risorse sufficienti per salvare la vita dei suoi bambini. Ma non lo ha fatto perché preferisce salvare la vita del suo regime.
Quanto a Israele, Bin Laden non vuole la pace fra palestinesi e israeliani, ma la distruzione pura e semplice dello stato sionista, entità sacrilega per lui e i suoi seguaci, perché comporta un governo di ebrei in una terra islamizzata (le terre islamizzate una volta dovrebbero essere per sempre governate da musulmani). Mentre la maggior parte dei paesi arabi e la stessa Olp di Arafat (formalmente solo dal novembre ’98, di fatto dal novembre ’88) hanno rinunciato al progetto di distruggere Israele e creare al suo posto uno stato arabo, Hamas, Al Qaeda e tutti gli altri gruppi dell’estremismo islamico (più la repubblica dell’Iran) continuano a perseguire questo progetto.
Gli Stati Uniti, vale la pena di ricordarlo, hanno sì sempre appoggiato, soprattutto in sede Onu, Israele. Ma si sono anche impegnati per un accordo di pace che tutelasse gli interessi dei vicini arabi di Israele e riconoscesse i diritti dei palestinesi: vedi gli accordi di Camp David (1978), Washington (1993) e Wye Plantation (1998). Il presidente egiziano Sadat che firmò la pace separata con Israele venne ucciso due anni dopo dai terroristi del Jihad egiziano. Fra loro c’era quel Mohamed Atef che oggi è il comandante militare di Al Qaeda. Gli americani, anti-arabi come sono, versano ogni anno 2,7 miliardi di dollari di aiuti all’Egitto dai giorni di Camp David.
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