Amato piange. Figuratevi i poveri

Di Rodolfo Casadei
19 Aprile 2001
Crescita del Pil, tassi di disoccupazione, deficit di bilancio, competitività: negli anni del centrosinistra l’Italia ha perso posizioni sia nelle classifiche UE che in quelle mondiali dei principali indicatori socio-economici. Mentre è aumentato il numero dei poveri e la parte dei profitti nel reddito nazionale a scapito degli stipendi

Non c’è da meravigliarsi proprio per niente che il centrosinistra abbia buttato sulla rissa la campagna elettorale per le politiche di maggio. Considerati i risultati di cinque anni di governo, per loro è meglio confondere le acque accusando gli avversari di fascismo, razzismo, mafiosità e crimini vari che cercare di pubblicizzare quello che hanno fatto nel quinquennio al potere. Perché il bluff verrebbe scoperto con eccessiva facilità. Che è proprio ciò che noi ci accingiamo a fare nelle righe che seguono. Lo schema classico della propaganda del centrosinistra e dei suoi fiancheggiatori prevede un attacco in due ondate: prima il fuoco delle artiglierie e l’assalto degli incursori dei vari Luttazzi, Santoro, Biagi, Montanelli cui tocca il compito di denigrare e demonizzare l’avversario; quindi i carri armati e le fanterie di Rutelli, Fassino e Visco che dovrebbero conquistare le posizioni a suon di argomenti solidi. Che suonano così: all’ombra dell’Ulivo l’Italia ha ripreso a crescere, il Pil progredisce, il deficit è sotto controllo, la disoccupazione arretra, il sistema paese progredisce, le condizioni sociali migliorano, ecc. Sono tutti argomenti leggeri come foglie. La realtà è la seguente: sotto i governi di centrosinistra l’Italia è regredita in molte importanti classifiche mondiali; laddove si sono ottenuti progressi, questi sono sempre inferiori a quelli degli altri paesi dell’Unione Europea (UE).

Il mito del Pil in crescita
A inizio anno i filogovernativi si sono inebriati di una previsione di crescita del Pil 2000 del 2,8%. L’Ocde (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico che riunisce i 29 paesi più industrializzati) ha poi ufficialmente ridimensionato il dato al 2,5%. Per il governo italiano è comunque una festa, considerato che fra il ’96 e il ’99 il Pil italiano era oscillato fra un minimo di +0,8% e un massimo di +1,4%. Peccato che negli stessi anni il tasso di crescita medio della UE sia stato costantemente superiore a quello italiano. Nel ’98 per esempio è stato il doppio: +2,66% contro +1,34%. E nel felice Duemila la UE ha sfondato la barriera del +3% mentre l’Italia si fermava al 2,5%, che non è altro che la penultima performance all’interno della UE (solo l’Austria ha fatto peggio con un 1,9%). Se poi si raffronta la media della crescita italiana nel quinquennio ‘95-’99 con quella degli altri paesi Ocde nello stesso periodo, le conclusioni sono addirittura tragiche: l’Italia, con uno striminzito 1,2%, è penultima su 29 paesi, sopravanzando la sola Repubblica Ceca; mentre ci sono 17 paesi industrializzati che registrano una crescita superiore al 3% annuo nello stesso arco di tempo. Anche il raffronto del Pil italiano a parità di potere d’acquisto con quello degli altri paesi UE genera tristezza: nel ’96 era pari al 103,5% della media UE, e dietro a noi c’erano 8 paesi; oggi è sceso sotto la media UE al 98,9% e dietro a noi ci sono soltanto 4 paesi.

E lo chiamano risanamento dei conti pubblici
Altro risultato strombazzatissimo è la riduzione del deficit annuo di bilancio: nel 1995 era pari al 117,1% del Pil, oggi è sceso al 110,2% e, secondo le previsioni del ministero del Tesoro, alla fine del 2001 si attesterà sul 106,6%. Un trionfo che ha restituito al paese la fiducia dell’Europa? Un po’ difficile da sostenere. Nel ’95 c’erano nella UE due paesi che quanto a deficit pubblico stavano peggio dell’Italia: la Grecia e il Belgio, rispettivamente col 120 e il 120,1% di deficit in proporzione al Pil. Nel 2001 scenderanno al 98,9 e al 105,8% rispettivamente. E l’Italia diventerà, per la prima volta, il paese più indebitato d’Europa.

Avete detto “disoccupazione”?
Enfasi spropositata è stata posta anche sul fatto che il tasso di disoccupazione, per la prima volta dal 1992 (quando i mulini erano bianchi…), è sceso sotto il 10% della forza lavoro (9,9% per l’esattezza). Ma pochi si prendono la briga di raffrontare il dato italiano con quello degli altri paesi UE. Si noterebbe che nell’Europa dei 15 la media è dell’8%, e solo la Spagna ha un tasso di disoccupazione superiore al nostro (13,7%). Ma la Spagna nel ’92 aveva una disoccupazione del 18,4%, e non del 9% come noi. A quel tempo i paesi con tassi più alti di quello italiano erano 6 (Danimarca, Spagna, Francia, Irlanda, Finlandia e Regno Unito), oggi ce n’è uno solo. Dove l’Italia non teme concorrenti è nel tasso di disoccupazione fra i giovani con meno di 25 anni: lì siamo ultimi incontrastati con un bel 31,8% (la Spagna segue staccata col 26,6%). Nella classifica dei disoccupati da più di un anno, invece, condividiamo la maglia nera col Belgio: nei due paesi il 61% dei disoccupati resta a spasso più di 365 giorni.

Tasse, imposte e oneri previdenziali
La pressione fiscale in Italia oscilla intorno al 43% del Pil, in linea con la media UE. Ma c’è da dire almeno due cose. La prima è che l’Italia è il paese dell’Ocde che ha conosciuto il più forte incremento di pressione fiscale nell’arco di tempo compreso fra il 1986 e il 1998: ben 7 punti percentuali in più, nessuno ha fatto tanto (la Germania +4%, la Francia +2%), mentre molti hanno diminuito le tasse: Regno Unito, Norvegia, Olanda, Irlanda, ecc. La seconda, è che a far problema è la distribuzione di tale pressione, che finisce per svantaggiare le nostre imprese. Per esempio l’Italia è il paese della UE dove gli oneri previdenziali incidono di più sul costo del lavoro: ne rappresentano infatti il 34,5%, contro il 25-26 di Germania e Spagna e il 12,7% del Regno Unito. Il risultato di tutto ciò è che gli stranieri non investono in Italia: fra i 21 paesi più industrializzati del mondo siamo al 20° posto (peggio di noi solo il Giappone) e ultimi dentro alla UE per quanto riguarda gli investimenti esteri diretti; ammontano allo 0,4% del nostro Pil, mentre in Svezia toccano il 25,1%, nel Regno Unito il 5,9% e in Francia il 2,8%.

E la competitività è finita sotto i tacchi
In base ai dati della classifica mondiale stilata annualmente dall’International Institute for Management Development di Losanna, fra il ’96 e il 2000 l’Italia è scesa dal 28° al 30° posto (su 47 paesi) per quanto riguarda la competitività della sua economia. Fra i paesi della UE è penultima (davanti alla Grecia), mentre nel ’96 aveva dietro di sé 3 paesi. Nell’estate scorsa il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio ha lamentato che l’indice di competitività basato sui prezzi alla produzione nel ’99 è peggiorato del 2,3% nei confronti dei principali partner commerciali dell’Italia e che dal ’96 la perdita nei confronti dell’area dell’euro è di 14 punti percentuali. Ancora peggio la perdita di competitività in termini di costo del lavoro per unità di prodotto: in questo caso negli ultimi quattro anni l’Italia ha perso 17 punti percentuali nei confronti di Francia e Germania. Oltre che con l’alta pressione fiscale questi dati si possono spiegare con problemi di produttività e di libertà economica. La produttività italiana è sempre stata fra le più alte del mondo, ma al tempo dell’Ulivo ha cominciato a conoscere battute di arresto: fra il ’96 e il 2000 il nostro è il paese del G7 dove essa ha registrato il minore incremento. Quanto alla libertà economica, misurata annualmente da Fraser Institute di Vancouver e in Italia dal Centro Einaudi, fra il ’95 e il ’97 (ultimo dato disponibile), l’Italia è risalita dal 40° al 31° posto (su 123 paesi) nel mondo. Ma è ancora lontana dal 24° posto del 1990 e continua ad essere il penultimo paese della UE quanto a libertà economica (solo la Grecia è meno libera di noi).

La sinistra è più “sociale”? Non fateci ridere
Da un governo di sinistra gli ingenui si sarebbero aspettati politiche a favore dei ceti svantaggiati e dei lavoratori. Ma quando mai? Noialtri abbiamo sempre saputo che la sinistra ama talmente i poveri che ne crea sempre dei nuovi. Adesso lo certifica anche l’Istat. Quando l’Ulivo nel 1996 è salito al potere in Italia c’erano 6.552.000 individui poveri (11,6% degli italiani) distribuiti in 2.079.000 nuclei familiari (10,3% del totale). Al 1° gennaio 2000 (ultimo dato disponibile) i poveri ufficialmente tali erano saliti a 7.508.000 (13,1% degli italiani) e le famiglie povere a 2.600.112 (11,9% del totale). In soldoni: un milione in più di poveri, mezzo milione in più di famiglie povere! Ma almeno i lavoratori ci avranno guadagnato da un governo di partiti dei lavoratori, direte voi. Errore. Quando la sinistra è salita al potere i salari netti rappresentavano il 40,9% del reddito in Italia, i profitti d’impresa il 26,5%. Al 1° gennaio 2000 l’incidenza dei salari è scesa quasi di un punto al 40,1%, quella dei profitti è salita al 28,6%. E la sanità? E la scuola? E la protezione sociale? I dati aggiornati scarseggiano, ma anche lì qualcosa da dire c’è. Gli ultimi dati relativi alla spesa sanitaria pubblica (1997) mostrano che l’Italia impegna una cifra pari al 5,3% del suo Pil: nella UE solo Grecia, Portogallo e Irlanda spendono di meno. La media UE per il periodo 1990-98 è del 6,6%. Quanto alla scuola, si può ricordare che l’Italia continua ad essere il terz’ultimo paese della UE sia quanto a diplomati delle scuole medie superiori (46% del gruppo di età fra i 25 e i 59 anni, solo Spagna e Portogallo fanno peggio) che quanto a laureati (10% di quelli che hanno fra i 30 e i 59 anni, solo Austria e Portogallo fanno peggio). Nella spesa pubblica per il welfare l’Italia continuava a piazzarsi sotto la media UE all’inizio del ’98: 25,9% del nostro Pil contro il 28,2% europeo. Ed è tutta concentrata nelle pensioni, che ne assorbono il 65% (staccatissimi tutti gli altri paesi UE, il più vicino è l’Austria con un 48,5%). Alle famiglie spetta appena il 3,5%. Nella UE solo la Spagna, col 2%, fa peggio di noi.

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