
13 storie dalla strada. Guardare la luce con gli occhi degli homeless

Che senso diamo al verbo abitare? Che cosa pensiamo quando diciamo casa?
C’è una mostra in corso fino al 1° settembre a Milano, nel prestigioso palazzo che ospita le Gallerie d’Italia di piazza della Scala, che ha il merito di rispondere – con immagini semplici e racconti diretti (in videoproiezione) di 13 senza tetto – a queste domande per nulla banali, se persino un grande filosofo dell’esistenzialismo tedesco come Martin Heidegger se le poneva già nel 1936 scrivendo il saggio Costruire Abitare Pensare.
«Il camionista è di casa sull’autostrada, ma non è quella la sua abitazione», scriveva Heidegger riflettendo sul senso dell’essere; «l’operaia è di casa nella filanda, ma non è quella la sua abitazione; l’ingegnere capo è di casa nella centrale elettrica, ma non vi abita», articolava il filosofo, dilatando il suo ragionamento. Avere una casa significa soltanto abitare un alloggio, oppure avere un luogo dove siamo riconosciuti, accolti e custoditi? Addirittura Heidegger intendeva salvati, ossia liberati nella nostra essenza.
L’abitare non coinvolge mai soltanto un aspetto della vita dell’uomo, ma la sua intera totalità; è questo, in estrema sintesi, il messaggio della mostra 13 storie dalla strada. Fotografi senza fissa dimora promossa da Intesa Sanpaolo con Fondazione Cariplo e curata da Dalia Gallico.
Non è una mostra d’arte, ma mette in scena molta creatività a partire dall’allestimento, davvero suggestivo. In una sorta di scatola nera o di camera oscura sono esposte 52 fotografie in bianco e nero e retro illuminate, incastonate come gioielli che brillano nel buio – molto metaforico – della sala.
I tredici autori delle immagini (scelte tra 9.800 scatti), citati soltanto per nome (Amath, Antonio, Aquil, Blessed Blessed, Dario, Fedele, Fulvio Massimo Ettore, Massimo Francesco, Nyang, Paulos, Salvatore, Traoré), non sono fotografi professionisti e neppure dilettanti; sono tredici homeless entrati in contatto nel 2014 con la onlus Ri-scatti, fondata da Federica Balestrini e sostenuta da Fondazione Cariplo.
«L’idea un po’ folle – racconta Balestrini – fu quella di dare in mano ai senza fissa dimora a noi noti una macchina fotografica e di convincerli a frequentare un corso di fotografia, tenuto da professionisti del Witness Journal, diventando reporter delle loro vite».
Durante i corsi gli operatori sono entrati nella quotidianità dei senza tetto, li hanno visti crescere in autostima e consapevolezza, pur tra mille fragilità e paure. Da quell’esperienza molti si sono persi per strada, ma quattro sono maturati fino a diventare fotografi che oggi saltuariamente scattano su commissione durante feste, matrimoni e conferenze stampa, sempre coordinati da Ri-scatti Onlus.
La mostra, in realtà, è soltanto lo spunto per esibire – attraverso questi 13 reportage fotografici – i frutti buoni di tante realtà attive nel sociale, spesso sconosciute ai più, nascoste dentro la grande matrioska di Fondazione Cariplo. Da Agroecologia in Martesana, una allegra comunità di orti urbani nata nell’ambito del “Bando Comunità Resilienti” per contrastare le criticità ambientali, alla casa di accoglienza per ragazzi disabili Tikitaka, progetto sostenuto dal “Bando Welfare di Comunità e innovazione sociale”. Da Nanosak, un progetto del “Bando Ricerca integrata sulle biotecnologie industriali e sulla bioeconomia” che finanzia le ricerche di giovani scienziati, a Texére, un progetto che ha sviluppato l’iniziativa per minori “La casa per fare insieme”, sostenuto da un altro Bando Cariplo che cerca di superare il modello assistenzialista del welfare tradizionale e di attivare le comunità a fare rete, valorizzando le ricchezze presenti nel territorio.
Insomma, 13 storie dalla strada è un viaggio nell’universo sociale e urbano della Fondazione Cariplo, condotto da 13 clochard, individuati dall’assessorato alle Politiche sociali di Milano, per raccontare 13 progetti scelti tra i 1.500 che ogni anno la Fondazione porta avanti.
È una mostra filantropica, politicamente corretta, algida come un laboratorio d’analisi, ma capace di scaldarsi sotto lo sguardo di 13 uomini abituati a essere definiti per difetto: senza casa, senza lavoro, senza identità, senza futuro. Invisibili a cui la macchina fotografica ha restituito la dignità e la potenza dell’espressione.
Giuseppe Guzzetti, che è stato il presidente di Fondazione Cariplo per oltre vent’anni, fino al giorno esatto di inaugurazione della mostra (28 maggio 2019), afferma:
«Ho sempre pensato che per risvegliare le coscienze dovremmo portare gli ultimi, i più deboli, nel centro delle nostre città. Quando questo accade li allontaniamo perché ci dà fastidio vedere persone fragili che ci chiedono l’elemosina davanti a vetrine sfavillanti. Questa mostra fotografica ha invece il grande merito di aver portato gli ultimi al centro in un modo diverso, da protagonisti, riservando loro il palcoscenico che di solito si lascia ai grandi fotografi».
Se varcherete la soglia delle Gallerie d’Italia pensando di vedere capolavori rimarrete delusi, ma sarete testimoni di una meraviglia più rara:
«Vedrete foto bellissime – prosegue Guzzetti – perché chi le ha scattate ha usato quel pertugio di luce per risalire dal baratro e poi lo ha trasformato in uno scatto, anzi in un riscatto».
Come cantava Leonard Cohen: «C’è una crepa in ogni cosa ed è là che entra la luce».
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