Myanmar. Il problema dei rohingya e la piccola gaffe di papa Francesco

Di Leone Grotti
31 Agosto 2017
A fine novembre il Papa compirà un viaggio apostolico in Myanmar e ha già chiesto «pieni diritti» per la minoranza musulmana, attirandosi le critiche dei vescovi locali. Il tema è spinoso e tocca fede, cittadinanza e terrorismo
SS. Papa Francesco - Angelus 15-11-2015 @Servizio Fotografico - L'Osservatore Romano

epa06164294 Displaced Rakhine ethnic people from Maungdaw township arrive to the Sittwe port, Sittwe, Rakhine State, western Myanmar, 26 August 2017. According to a statement by the Myanmar Armed Forces, at least 32 people, including 11 law enforcement officials, were killed on 25 August in Myanmar after Rohingya militants attacked police outposts and an army base in the western state of Rakhine.  EPA/NYUNT WIN

Sono passati solo tre giorni da quando il Vaticano ha annunciato che a fine novembre papa Francesco compirà un viaggio apostolico in Myanmar, il primo della storia, e già si è accesa una diatriba tra i vescovi locali e il Santo Padre. All’Angelus di domenica il Pontefice ha parlato delle «tristi notizie sulla persecuzione della minoranza religiosa dei nostri fratelli rohingya» e subito monsignor Alexander Pyone Cho, arcivescovo di Pyay, la diocesi della regione di Rakhine dove risiede la minoranza musulmana, ha chiarito che «quello dei rohingya è un tema sensibile e sarebbe meglio che il Papa non usasse questo termine durante la visita». Il portavoce della Conferenza episcopale birmana ha aggiunto: «Se il Papa andrà a visitare i rohingya farà qualcosa di sbagliato. Se vuole visitare persone sofferenti, lo porteremo ai campi profughi cattolici». Altri prelati hanno espresso la preoccupazione che «il Papa non abbia informazioni accurate e rilasci dichiarazioni che non riflettono la realtà».

CHI SONO I ROHINGYA. Per capire perché le parole del Papa hanno sollevato un simile polverone bisogna ricordare che i rohingya sono un gruppo etnico di religione musulmana che vive nel nord-est del paese, nella regione di Rakhine, al confine con il Bangladesh. Si tratta di circa un milione di persone che non sono mai state accettate dalla maggioranza della popolazione del paese del sud-est asiatico, che professa il buddismo per l’89 per cento. I cattolici, invece, rappresentano appena l’1 per cento dei 51 milioni di abitanti.

MUSULMANI E BUDDISTI. Tutto ciò che riguarda i rohingya è controverso nel paese e crea fortissime tensioni politiche, a partire dal nome stesso usato per identificarli. Anche se esistono tracce del termine “rohingya” in documenti che risalgono al 1799, la loro presenza è cresciuta nel paese in modo significativo dopo l’annessione del paese nel 1826 da parte dell’impero britannico, che ha aperto le porte a decine di migliaia di musulmani bengalesi. Il regime militare che ha governato il Myanmar dal 1962 al 2011, ed è molto forte ancora oggi, non ha mai riconosciuto questa etnia e non ha mai usato il termine rohingya, anche per non irritare la maggioranza buddista, preferendo piuttosto l’appellativo “bengalesi di fede musulmana”. Questi, dunque, non hanno diritto alla cittadinanza, concessa invece ad altre 135 etnie nel paese, perché non sono considerati veri birmani.

LA PERSECUZIONE. Di conseguenza i rohingya non possono avere accesso al sistema educativo e sanitario e difficilmente trovano lavoro. Il regime li ha sempre perseguitati, autorizzando torture e abusi di ogni tipo. Ancora oggi, i rohingya non hanno diritto alla proprietà privata, non possono concepire più di due figli, vivono perlopiù rinchiusi in campi profughi, che secondo alcune fonti assomigliano addirittura a campi di concentramento. È per questo che decine di migliaia di disperati fuggono dal paese verso paesi musulmani vicini come Malaysia, Indonesia o Bangladesh. Il problema è che anche questi Stati li rifiutano, dichiarandoli «persone non gradite». Attualmente, circa 500 mila rohingya vivono in campi profughi in Bangladesh, che però non ha intenzione di migliorare la loro condizione di apolidi concedendo la cittadinanza.

ATTENTATI TERRORISTICI. A parte il dibattito storico sulla provenienza di questa etnia, i buddisti birmani non amano i rohingya anche perché questi nel 1948 hanno tentato la secessione, fallita nel 1961. Pur non rappresentando più una minaccia reale, la maggioranza della popolazione teme che vogliano creare uno Stato nello Stato con l’uso delle armi. La nascita di un gruppo terroristico in seno alla comunità musulmana, chiamato Harakah al-Yakin e guidato da alcuni membri scappati in Arabia Saudita, non ha fatto che aggravare il pregiudizio. Solo nell’ultima settimana, circa 400 persone sono morte dopo che centinaia di rohingya hanno assaltato la polizia a controllo del confine con il Bangladesh e i militari hanno risposto.

AUNG SAN SUU KYI. Per tutti questi motivi anche solo usare il termine “rohingya”, soprattuto se accompagnato dal discorso sui «pieni diritti», come fatto dal Papa, è molto pericoloso ed è il modo peggiore per entrare in rapporto con le istituzioni e la popolazione del Myanmar. Ne sa qualcosa il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, che dopo essere stata perseguitata dal regime per 20 anni, è salita al potere come presidente de facto del paese in seguito a regolari elezioni. Tutti si aspettavano che una paladina dei diritti umani come lei difendesse i rohingya, invece si è rifiutata di utilizzare questo termine e ha anche negato le violenze dell’esercito nei confronti dei membri dell’etnia.
La dama birmana sa bene che il problema è delicatissimo, portandosi dietro implicazioni sociali e politiche molto pesanti, e non può che essere affrontato con i guanti, specialmente in un paese che sta faticosamente cercando di uscire da decenni di dittatura. Lo stesso vale per i vescovi cattolici, che hanno consigliato al Papa di usare prudenza, anche per non peggiorare la situazione della piccola comunità cristiana nel paese.

@LeoneGrotti

Foto Ansa

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