L’ultima confessione del tiranno Fidel

Di Lorenzo Albacete
24 Agosto 2006
Fra la paura dei rifugiati e l'idealismo neocon. Perché l'America teme che la malattia del dittatore di Cuba sia soltanto un bluff

In terza serata le tv di news via cavo mandano in onda gli show dei comici. La reazione del pubblico ai loro sketch è un ottimo indicatore (spesso migliore dei sondaggi) di cosa pensi l’americano medio delle notizie del giorno. Per esempio l’altra sera Jay Leno ha detto: «Le notizie da Cuba oggi riguardano le non incoraggianti condizioni di salute del presidente Castro. E il fatto che in molti siano preoccupati. Sembra infatti che stia migliorando.». Applausi e risate. Per la maggior parte degli americani oggi, Fidel Castro è una figura comica del passato. In questi tempi di post-comunismo, post-11/9 e con quel che accade in Medio Oriente, la salute di Castro rappresenta l’ultima delle preoccupazioni. Ormai è solo materiale per gli sketch dei comici di terza serata.
Non è così, ovviamente, per la comunità cubana d’America, viste anche le celebrazioni di Miami, gli articoli e gli editoriali di intellettuali e artisti cubani. Ho sempre pensato che la storia della rivoluzione castrista fosse vissuta dalla comunità degli esuli cubani come una faida familiare: le emozioni travalicano la politica e arrivano al livello del tradimento personale. In questa atmosfera – che persiste anche all’interno delle generazioni post-esilio – le notizie sulla malattia di Castro sono seguite con l’intensità di un’esperienza religiosa. L’amministrazione Bush, invece, sembra avere due preoccupazioni: evitare l’esplosione di una nuova crisi di rifugiati e promuovere una transizione verso la democrazia. La prima appare percorribile, ma le possibilità di una transizione verso la democrazia sull’isola paiono poco incoraggianti, perché Raúl Castro, fratello e successore designato di Fidel, è considerato un duro come lui, se non addirittura peggio. Fidel ha permesso alcune riforme di mercato negli anni Novanta dopo la caduta dell’Urss, ma grazie al pesante supporto economico (in denaro e petrolio) del presidente venezuelano Hugo Chávez, queste riforme sono state ritirate. Di più, Raúl ha già piazzato molti famigliari e molti militari in posti chiave del governo, garantendosi un enorme potere. E poi permane l’incertezza sul reale stato di salute di Fidel. Qualcuno dice che avrebbe un cancro o un’ulcera, perché – spiegano – a nessuno scoppia un’emorragia interna per stress. Altri invece pensano che Castro potrebbe essere già morto. E perché Raúl è restio a mostrare il volto alla stampa?
A una recente conferenza su Cuba presso un think tank di Washington con orientamento neocon, il moderatore chiese perché il governo americano fosse tanto spaventato dall’arrivo di nuovi rifugiati. Lo speaker rispose che la prima ondata di immigrati apparteneva all’alta borghesia cubana che fuggiva dal comunismo sul finire degli anni Cinquanta, mentre la seconda era composta dalla borghesia delle professioni e la terza riguardava lo strato più povero della popolazione. In totale ci sono state cinque ondate migratorie, sempre più oscure e povere. E molti dei rifugiati arrivati per ultimi non sono buoni lavoratori perché hanno la mentalità tipica che il comunismo instilla nelle persone. Anche per questo i neocon vogliono fortemente e idealisticamente la democrazia per Cuba, pur se i temi chiave delle prossime elezioni al Congresso e delle presidenziali del 2008 sembrano essere ancora l’Iraq e il Libano.

A scuola dai gesuiti
Un cardinale americano con cui Castro amava parlare – così pare – una volta gli disse che se voleva che le conquiste della rivoluzione cubana restassero anche dopo la sua morte, avrebbe dovuto normalizzare le relazioni con la Chiesa cattolica, visto che solo attraverso la dottrina sociale della Chiesa quelle conquiste avrebbero avuto speranza di sopravvivergli. Castro ascoltò con attenzione senza replicare. Il cardinale aveva ottenuto una vittoria. Ma in verità l’atteggiamento più realistico nei confronti del líder máximo è giunto dai vescovi cubani che – sempre uniti nonostante le differenze – hanno pubblicato un appello che invita alla calma e alla preghiera e sottolinea come il futuro dell’isola dipenda dai cubani di Cuba, non dai piani delle comunità in esilio.
Al tempo del viaggio a Cuba di Giovanni Paolo II fui invitato dal governo dell’Avana (apparentemente per un articolo che avevo scritto per il New Yorker) a partecipare a un ricevimento che Castro aveva organizzato per i vescovi americani in occasione della visita papale. Nel mio articolo avevo evitato argomenti politici e mi ero concentrato sulla visione religiosa di Castro, che gli derivava dall’educazione presso i gesuiti. Quando gli fui presentato come teologo, mi guardò e chiese: «Mi dica, i teologi hanno scoperto che tipo di pesce moltiplicò Gesù?». Non sapevo come interpretare questa domanda. Era serio? Si stava prendendo gioco della teologia? Dopo un momento di silenzio risposi: «Erano orate rosse». Castro sorrise: «Non ci sono orate rosse in quelle acque». E io replicai: «Beh, questo è parte del miracolo!». Fortunatamente gli piacque la mia risposta e rise. Ma aveva un’altra domanda, «una seria»: «Perché ci sono più conversioni in Africa che in Cina?». Per gli africani, spiegai, è più facile accettare la presenza del divino nell’umano (l’Incarnazione) visto che il loro senso religioso è più “naturacentrico” mentre all’Est il senso religioso è totalmente scisso da spazio e materia. Castro ci pensò su e osservò: «I gesuiti non me l’hanno mai detto». Risposi: «Bè, io sono andato a una scuola cattolica». Fortunatamente rise ancora. Poi promisi che gli avrei mandato un libro sul senso religioso che avrebbe trovato interessante. E così feci: quando tornai a New York gli mandai il libro di don Luigi Giussani autografato.
Non so cosa ne pensò, ma anni dopo mi fu permesso di presentare lo stesso libro in pubblico a un congresso di bioetica all’Avana sponsorizzato dalla Chiesa con l’approvazione entusiasta del governo, ovvero di Fidel Castro. Alla conclusione, mentre già salutavamo il presidente, Castro disse al cardinale di New York John O’Connor, che era davanti a me: «Come vede, eminenza, sono finalmente andato a Messa. Ora quando verrò di nuovo a New York potrà ricevermi alla cattedrale di St. Patrick». Il cardinale replicò: «Manca ancora una cosa da fare: la riceverò se verrà a confessarsi». Castro rise: «Non così in fretta, eminenza, non ancora». Poi mi guardò e ammiccò. È l’ultima immagine che ho di Castro. Il cardinale O’Connor ormai è nell’Eternità e immagino che lo stia aspettando. Prego per lui ora, sperando che ammetta che questo è il tempo giusto per la confessione.

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