
L’arte della vita è essere carcerati e diventare Giotto
Marino è finito dietro le sbarre definitivamente nel 1994, con tre sole parole infilzate nell’anima, «fine pena: mai». Una rapina, un omicidio, un ergastolo. La vita di Marino nel 1994 era praticamente finita. Ogni tanto avrebbe cambiato cella, l’avrebbero trasferito di carcere in carcere, ma nulla più. E la sua quotidianità sarebbe stata scandita da traumi più che da imprevisti. Come quando, nel 2000, all’improvviso e senza alcuna ragione apparente, gli ordinarono di raccattare in fretta e furia la sua roba, pochi stracci, e gli dissero che sarebbe «partito». È così che Marino è arrivato al “Due Palazzi” di Padova. Ed è qui, nel carcere di Padova, che due anni più tardi la vita di Marino, ergastolano, sarebbe ricominciata: «È il febbraio del 2002, e mentre mi sto avviando alla sala colloqui incrocio l’allora direttore del carcere, il dottor Cantone. Appena mi vede mi chiama da parte e mi chiede a bruciapelo se sono contento di. partire». Di nuovo partire, pensa Marino, un altro penitenziario chissà dove, un’altra cella in compagnia di altri detenuti, un’altra “casa” da ricostruire daccapo. «A sentire quel termine – partire – ho un trasalimento e il dottor Cantone se ne accorge. Mi fissa dritto negli occhi e, sfoggiando un sorriso d’incoraggiamento, mi rassicura: “Ma no, stia tranquillo, intendo dire se è contento di. partire col lavoro. Da lunedì inizia ai capannoni”. Passa qualche giorno e sono convocato da Nicola Boscoletto, il presidente della cooperativa Giotto. Un incontro che non dimenticherò facilmente. Abbastanza imbarazzato, lo ringrazio dell’opportunità che mi viene offerta e cerco di rassicurarlo: non lo deluderò, mi comporterò bene, anche se mi rendo perfettamente conto che il mio passato, quello che mi ha portato in carcere, non è dei più rassicuranti. Ma lui non mi lascia nemmeno finire la frase. Mi appoggia una mano sulla spalla e mi dice: “Non mi interessa quello che hai fatto fuori di qui, per quello stai già pagando. Per me sei un dipendente della Giotto, punto e basta. L’unica cosa che conta è che tu faccia bene il lavoro che ti viene affidato”».
E da allora la vita di Marino ha di nuovo un significato. Semplicemente perché qualcuno ha avuto il fegato di dargli credito, perché qualcuno gli ha dato un’opportunità, come ha confessato lo stesso Marino il 9 novembre, durante la presentazione ufficiale del consorzio sociale Rebus (di cui fa parte anche la cooperativa Giotto): «Ormai sono quasi quattro anni che lavoro alla Giotto, e in tutto questo tempo mi sono sempre sentito un lavoratore normale: cosa del tutto naturale, per un cittadino libero, ma assolutamente nuova e importante per un detenuto, che per quanto possa ostinarsi a sentirsi normale sa benissimo di non esser più considerato tale dagli altri. E quindi di non essere normale per niente, dato che uno non è niente se non è riconosciuto come persona dagli altri».
SE TUTTA ITALIA POTESSE IMPARARE…
La casa di reclusione di Padova è ricca di storie come quella di Marino, storie di persone che scoprono – ha spiegato Giorgio Vittadini (Fondazione per la Sussidiarietà), intervenuto alla presentazione di Rebus insieme a Marino – che «il desiderio di bene vince sul male», e che il lavoro può essere esperienza di libertà anche in prigione «perché un uomo è libero quando quello che fa esprime il suo cuore». Infatti solo negli ultimi cinque anni (cioè dal 2000, anno dell’approvazione della legge Smuraglia che ha istituito le agevolazioni a favore dell’inserimento lavorativo dei detenuti) sono già più di 200 i carcerati del “Due Palazzi” coinvolti nei progetti del consorzio Rebus, progetti che vanno dal corso di giardinaggio alla ristorazione, dal call center alla lavorazione dei manichini in cartapesta, dall’assemblaggio metalmeccanico alla legatoria. E dietro tutte le iniziative imprenditoriali legate a Rebus – dice a Tempi Andrea Basso della cooperativa Giotto – c’è una singolare ambizione: «Fin da subito abbiamo voluto costruire opere capaci di stare in piedi da sole, di reggere autonomamente la sfida del mercato. Se attualmente possiamo offrire un lavoro regolarmente retribuito a 60 detenuti sui 700 del carcere di Padova (caso più unico che raro in Italia), è perché le nostre non sono iniziative para-aziendali. Se uno dei prodotti delle nostre cooperative va fuori mercato, allora chiudiamo la produzione. Anzi, se fuori per vincere bisogna lavorare al 100 per cento, noi dobbiamo raggiungere il 101, visto che c’è da colmare uno scarto non indifferente di credibilità.». A oggi in effetti il lavoro degli strani dipendenti di Rebus sembra pienamente in grado di reggere la concorrenza. Fioccano infatti commesse e ordini importanti. Ci sono, per citarne alcune, la riqualificazione di alcune aree verdi della città (giardinaggio), o i momenti di cucina d’eccellenza con chef di calibro internazionale (ristorazione e pasticceria), o, ancora, le commesse svolte per conto di grandi aziende come Roncato (valigeria). Ma soprattutto – sono sempre le parole dell’intervento di Vittadini alla presentazione del consorzio – Rebus è un’opera che «ha anche un significato civile. Per la Costituzione italiana le carceri servono anche alla riabilitazione, mentre di solito diventano una punizione per sempre. Questo è un tentativo di applicare la nostra Carta». E i dati sui recidivi parlano chiaro: fra i detenuti che hanno lavorato nelle cooperative di Rebus, quelli che una volta usciti di prigione tornano al crimine sono appena il 15-20 per cento, a fronte di una media nazionale drammaticamente vicina all’80 per cento.
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